Questo pezzo fa parte di una serie di articoli in cui viene esplicitata una critica anarchica alla democrazia.
La democrazia è l’ideale politico più universale dei nostri giorni. George Bush la invocò per giustificare l’invasione dell’Iraq; Obama si congratulò con i ribelli di Tahrir Square per averla portata in Egitto; Occupy Wall Street affermò di averne distillato l’essenza. Dalla Repubblica Democratica Popolare di Corea alla regione autonoma del Rojava, praticamente ogni Governo e movimento popolare si definisce democratico.
E come possiamo curare i problemi legati alla democrazia? Tutti sono d’accordo: con più democrazia. Dall’inizio del secolo, abbiamo visto una serie di nuovi movimenti che promettono di offrire una vera democrazia, in contrasto con istituzioni apparentemente democratiche che sono da queste descritte come esclusive, coercitive e alienanti.
Esiste un filo conduttore che collega tutti questi diversi tipi di democrazia? Qual è quello vero? Qualcuno di loro può offrire l’inclusività e la libertà che associamo a questa parola?
Spinti dalle nostre esperienze in movimenti direttamente democratici, siamo tornati a porci queste domande. La nostra conclusione è che i drammatici disequilibri nel potere economico e politico che hanno spinto le persone a riversarsi nelle strade di città come New York e Sarajevo non sono difetti casuali presenti in specifiche democrazie, ma sono caratteristiche strutturali risalenti alle origini della democrazia stessa che compaiono concretamente in ogni esempio di Governo democratico sviluppatosi nel corso dei secoli. La democrazia rappresentativa ha preservato tutto l’apparato burocratico originariamente inventato per essere al servizio dei sovrani; la democrazia diretta tende a ricrearla su scala minore, anche al di fuori delle strutture formali dello Stato. Democrazia non significa autodeterminazione.
A dire il vero, molte cose positive vengono regolarmente descritte come democratiche. Questa non vuole essere un’argomentazione contro discussioni, collettivi, assemblee, reti, federazioni o nemmeno contro l’idea di lavorare con persone con cui non si va sempre d’accordo. Ciò su cui, invece, desideriamo ragionare riguarda il fatto che quando ci impegniamo in queste pratiche, se capiamo cosa stiamo facendo in quanto democrazia - come forma di Governo partecipativo anziché come pratica collettiva di libertà - prima o poi ricreeremo tutti i problemi associati a forme di Governo meno democratiche. Questo vale sia per la democrazia rappresentativa sia per quella diretta, e anche per il processo del consenso.
Invece di difendere le procedure democratiche come fini a se stesse, torniamo ai valori che, per primi, ci hanno portato verso la democrazia: egualitarismo, inclusività, l’idea che ogni persona dovrebbe poter controllare il proprio destino. Cos’è la democrazia se non il modo più efficace per metterli in pratica?
Mentre le democrazie odierne sono sempre più scosse da lotte accese, la posta in gioco di questa discussione continua ad aumentare. Se continuiamo a cercare di sostituire l’ordine prevalente con una versione più partecipativa della stessa cosa, continueremo a trovarci allo stesso punto da cui siamo partiti e altri che condividono la nostra disillusione si potrebbero spostare verso alternative più autoritarie. Abbiamo bisogno di una struttura in grado di soddisfare le promesse tradite dalla democrazia.
In questo pezzo, analizzeremo il filo conduttore che collega le diverse forme di democrazia, ne tracceremo lo sviluppo a partire dalle sue origini classiche fino alle sue varianti rappresentative contemporanee - dirette e basate sul consenso - e valuteremo come il discorso e le procedure democratiche sono al servizio dei movimenti sociali che li adottano. Strada facendo, delineeremo cosa significherebbe cercare la libertà direttamente anziché attraverso un Governo democratico.
Questo progetto è il risultato di anni di confronti intercontinentali. A complemento, pubblichiamo casi studio di partecipanti a movimenti che sono stati promossi come modelli di democrazia diretta: 15-M in Spagna (2011), l’occupazione di Syntagma Square in Grecia (2011), Occupy negli Stati Uniti (2011–2012), la rivolta slovena (2012–2013), i Plenum in Bosnia (2014) e la rivoluzione in Rojava (2012–2016).
Cos’è la democrazia?
Esattamente, cos’è la democrazia? Buona parte delle definizioni presenti nei libri di testo riguarda la regola della maggioranza o il Governo da parte dei rappresentanti eletti. D’altro canto, alcuni radicali hanno sostenuto che la “vera” democrazia ha luogo solo esternamente e contro il monopolio statale sul potere. Dovremmo intenderla quindi come un insieme di procedure decisionali con una storia specifica o come un’aspirazione generale alla politica egualitaria, inclusiva e partecipativa?
Per determinare l’oggetto della nostra analisi, iniziamo dal termine stesso. La parola democrazia deriva dall’antico greco dēmokratía, da dêmos, “popolo,” e krátos, “potere.” Questo enunciato della regola da parte del popolo, riemersa in America Latina come poder popular, fa sorgere delle domande: quale popolo? E che tipo di potere?
“Cos’è la democrazia?”
“Mah, con precisione non lo so nemmeno io… È come una specie di Governo. Riguarda però i giovani che si uccidono tra di loro, se non sbaglio.”
— E Johhny prese il fucile (1971)
Queste radici, demos e kratos, suggeriscono due comuni denominatori di tutta la democrazia: un modo per determinare chi partecipa al processo decisionale e un modo per imporre le decisioni. In altre parole, cittadinanza e polizia. Questi sono gli elementi essenziali della democrazia; sono ciò che la rende una forma di Governo. Qualsiasi altra cosa è meglio descritta come anarchia: l’assenza di Governo, dal greco an-, “senza,” e arkhos, “sovrano.”
Chi rientra nel demos? Qualcuno ha sostenuto che, etimologicamente, demos non abbia mai significato tutte le persone ma solo determinate classi sociali. Anche se i suoi sostenitori ne hanno sbandierato la presunta inclusività, in pratica la democrazia ha sempre richiesto un modo per distinguere tra inclusi ed esclusi. Potrebbe trattarsi di status nella legislatura, diritti di voto, cittadinanza, appartenenza, etnia, genere, età o partecipazione alle assemblee di strada; ma in ogni sua forma, affinché ci siano decisioni legittime, devono esserci le condizioni formali di legittimità e un gruppo definito di persone che le accolga.
A tal proposito, la democrazia istituzionalizza il carattere provinciale e sciovinista delle sue origini greche mentre, allo stesso tempo, offre un modello che potrebbe coinvolgere tutto il mondo. Ecco perché si è dimostrata così compatibile con nazionalismo e Stato; presuppone l’Altro, cui non sono concessi gli stessi diritti o la stessa organizzazione politica.
L’attenzione su inclusione ed esclusione si palesa abbastanza chiaramente agli albori della democrazia moderna nell’influente Il contratto sociale di Rousseau, in cui l’autore sottolinea come non vi sia alcuna contraddizione tra democrazia e schiavitù. Maggiore è il numero di “malfattori” in catene, suggerisce, più perfetta è la libertà dei cittadini. La libertà per il lupo è la morte per l’agnello, come disse in seguito Isaiah Berlin. Il concetto di libertà a somma zero espressa in questa metafora è il fondamento del discorso sui diritti concessi e protetti dallo Stato. In altre parole: affinché i cittadini siano liberi, lo Stato deve detenere la massima autorità e la capacità di esercitare un controllo totale. Lo Stato cerca di produrre pecore, mantenendo per sé la posizione del lupo.
Al contrario, se intendiamo la libertà come cumulativa, quella di una singola persona diventa quella di tutti: non si tratta solo di essere protetti dalle autorità, ma di intersecarsi l’un l’altro in modo da sfruttare al meglio per tutti le possibilità. In questo contesto, più tale forza coercitiva sarà centralizzata, minore sarà la libertà. Questo modo di concepire la libertà è sociale più che individualistico: essa è vista come una relazione prodotta collettivamente con il nostro potenziale, non come una bolla statica di diritti privati.1
Parliamo ora dell’altra radice, kratos. Il termine democrazia condivide questo suffisso con aristocrazia, autocrazia, burocrazia, plutocrazia e tecnocrazia. Ognuno di questi descrive il Governo attraverso alcuni sottostrati della società che, però, condividono tutti una logica comune, ovvero il kratos, il potere.
Quale tipo di potere? Consultiamo ancora una volta gli antichi Greci.
Nella Grecia classica, ogni concetto astratto era personificato da un essere divino. Kratos era uno spietato Titano che incarnava il tipo di forza coercitiva associata al potere statale. Una delle fonti più antiche in cui compare è la tragedia Prometeo incatenato, composta da Eschilo nei primi anni della democrazia ateniese. L’opera si apre con Kratos che accompagna con la forza Prometeo incatenato, punito per aver rubato il fuoco agli dèi per donarlo all’umanità. Kratos appare come un carceriere che esegue, inconsapevolmente, gli ordini di Zeus - un bruto “creato per le azioni di qualsiasi tiranno.”
Il tipo di forza personificata da Kratos è ciò che la democrazia ha in comune con l’autocrazia e tutte le forme di Governo. Condividono le istituzioni della coercizione - ordinamento giuridico, polizia e militari - che hanno preceduto la democrazia e l’hanno ripetutamente sopravvissuta. Questi sono gli strumenti “creati per le azioni di qualsiasi tiranno,” non importa se il tiranno al comando sia un re, una classe di burocrati o “il popolo” stesso. “Democrazia significa sorveglianza del popolo da parte del popolo,” sostenne, senza ironia alcuna, Mu’ammar Gheddafi quasi a riecheggiare ciò che Oscar Wilde aveva affermato un secolo prima: “Democrazia significa semplicemente far bastonare il popolo dal popolo e in nome del popolo.”
In greco moderno, kratos altro non è che la parola per Stato. Per comprendere la democrazia, dobbiamo guardare più da vicino al Governo stesso.
“Non vi è alcuna contraddizione tra l’esercizio della democrazia e il legittimo controllo amministrativo centrale secondo il noto equilibrio tra centralizzazione e democrazia… La democrazia consolida le relazioni tra le persone e la sua forza principale è il rispetto. La forza che deriva dalla democrazia assume un maggior grado di aderenza nello svolgimento degli ordini con grande precisione e zelo.”
— Saddam Hussein, “Democracy: A Source of Strength for the Individual and Society” (Democrazia: una fonte di forza per l’individuo e la società)
Monopolizzare la legittimità
“Come nei Governi assoluti il Re è Legge, nei Paesi liberi la Legge deve essere sovrana.”
— Thomas Paine, Senso Comune
Come forma di Governo, la democrazia offre un modo per produrre un singolo ordine da una disarmonia di desideri, assorbendo nelle politiche dettate dalla maggioranza le risorse e le attività della minoranza. In ogni democrazia, esiste uno spazio legittimo per il processo decisionale, distinto dal resto della vita. Potrebbe essere un congresso in un Parlamento, o un’Assemblea generale su un marciapiede o un App che richiede voti tramite iPhone. In ogni caso, non sono i nostri bisogni e desideri immediati le fonti ultime di legittimità, ma un particolare processo e protocollo decisionale. In uno Stato, questo è chiamato “stato di diritto,” sebbene il principio non richieda necessariamente un sistema legale formale.
Questa è l’essenza del Governo: le decisioni prese in uno spazio determinano cosa può avvenire in tutti gli altri. Il risultato è l’alienazione - l’attrito tra ciò che viene deciso e ciò che viene vissuto.
La democrazia promette di risolvere questo problema incorporando tutti nello spazio decisionale: la regola di tutti. “I cittadini di una democrazia si sottomettono alla Legge perché riconoscono che, per quanto indirettamente, stanno sottomettendosi a se stessi come creatori della Legge.” Se però tutte quelle decisioni fossero effettivamente prese dalle persone sulle quali incidono, non si dovrebbe ricorrere a dei mezzi per farle rispettare.
“La grande difficoltà sta in questo: che prima bisognerà mettere il Governo in condizione di controllare i governati e poi obbligarlo ad autocontrollarsi.”
— James Madison, Il Federalista
Cosa protegge le minoranze in questo sistema maggioritario? I sostenitori della democrazia spiegano che le minoranze saranno protette da disposizioni istituzionali -“pesi e contrappesi.” In altre parole, la stessa struttura che detiene il potere su di loro dovrebbe proteggerle da se stessa.[^2 In questo approccio, democrazia e la libertà personale sono concepite fondamentalmente come in contrasto: per preservare la libertà degli individui, un Governo deve essere in grado di togliere la libertà a tutti. Tuttavia è davvero ottimistico credere che le istituzioni saranno sempre migliori delle persone che le presiedono. Più potere si conferisce al Governo nella speranza di proteggere gli emarginati, più pericoloso può essere quando questo viene rivolto contro di loro.
Quanto siete disposti ad accettare l’idea che il processo democratico debba superare la vostra coscienza e i vostri valori? Facciamo un esercizio veloce. Immaginate di essere in una Repubblica democratica con schiavi come, per esempio, nell’antica Atene, nell’antica Roma o negli Stati Uniti d’America fino alla fine del 1865. Obbedireste alla Legge e trattereste le persone come proprietà mentre vi sforzate di cambiare le leggi, ben sapendo che, nel frattempo, intere generazioni potrebbero vivere e morire in catene? O agireste secondo la vostra coscienza sfidando la Legge, come Harriet Tubman e John Brown?
Se doveste seguire le orme di Harriet Tubman, vorrebbe dire che anche voi credete che esista qualcosa di più importante dello stato di diritto. Questo è un problema per chiunque voglia conformare il giudice finale della legittimità alla Legge o alla volontà della maggioranza.
“Non può esistere un Governo nel quale non siano le maggioranze a stabilire, virtualmente, il giusto e l’ingiusto, bensì la coscienza?”
— Henry David Thoreau, Disobbedienza civile
La democrazia originale
Già nell’antica Atene, la tanto decantata “culla della democrazia,” notiamo che esclusione e coercizione furono da sempre caratteristiche essenziali del Governo democratico. Solo i cittadini maschi adulti addestrati militarmente potevano votare; donne, schiavi, debitori e tutti coloro che non avevano sangue ateniese erano esclusi. Al suo apice, la democrazia coinvolse meno di un quinto della popolazione.
Infatti, la schiavitù era più diffusa nell’antica Atene che in altre città della Grecia, e le donne avevano meno diritti rispetto agli uomini. Una maggiore eguaglianza tra i cittadini di sesso maschile significava apparentemente una maggiore solidarietà contro donne e stranieri. Lo spazio della politica partecipativa era una comunità chiusa.
Possiamo mappare i confini di questa comunità chiusa nell’opposizione ateniese tra pubblico e privato, tra polis e oikos. La polis, la città-stato greca, era uno spazio di discorso pubblico in cui i cittadini interagivano come pari. Al contrario, l’oikos, la casa, era uno spazio gerarchico in cui i proprietari, ovviamente uomini, regnavano sovrani - una zona al di fuori del campo politico, ma che ne fungeva da fondamento. In questa dicotomia, l’oikos rappresenta tutto ciò che fornisce le risorse a sostegno della politica, eppure è dato per scontato in quanto precedente e, pertanto, al di fuori di essa.
Queste categorie ci accompagnano anche oggi. Le parole “politica” (“gli affari della città”) e “polizia” (“l’amministrazione della città”) derivano da polis, mentre “economia” (“la gestione della famiglia”) ed “ecologia” (“lo studio della casa, dell’ambiente”) derivano da oikos.
La democrazia si basa ancora su questa divisione. Finché esisterà una distinzione politica tra pubblico e privato tutto - dalla casa (lo spazio di genere dell’intimità che sostiene l’ordine dominante con il lavoro invisibile e non retribuito)2 a interi continenti e popoli (come l’Africa durante il periodo coloniale, o persino lo stesso essere neri) - potrà essere relegato al di fuori della sfera politica. Allo stesso modo, l’istituzione della proprietà e l’economia di mercato da questa prodotta, che hanno ricoperto la funzione di sottostruttura della democrazia sin dalle sue origini, sono messe fuori discussione nel momento stesso in cui sono imposte e difese dall’apparato politico.
Fortunatamente, l’antica Atene non è l’unico punto di riferimento per il processo decisionale egualitario. Un rapido esame di altre società fa emergere parecchi altri esempi, molti dei quali non sono basati su esclusività o coercizione. Ma anche queste dovrebbero essere ritenute democrazie?
“Dovremmo credere che prima degli ateniesi, non sia mai venuto in mente a nessuno, in qualunque parte del mondo, di radunare tutti i membri della propria comunità al fine di prendere decisioni congiunte in modo che tutti avessero pari poteri?”
— David Graeber, Frammenti di antropologia anarchica
Nei suoi Frammenti di antropologia anarchica, David Graeber rimprovera i suoi colleghi di aver identificato Atene come origine della democrazia; egli ipotizza che i modelli Irochesi, Berberi, Sulawesi o Tallensi non ricevano la stessa attenzione semplicemente perché nessuno di questi è incentrato sul voto. Da un lato, Graeber ha ragione nel far convergere la nostra attenzione verso quelle società che si concentrano sulla costruzione del consenso anziché sulla pratica della coercizione: molti di questi incarnano i valori migliori associati alla democrazia molto più di quanto non fu fatto nell’antica Grecia. D’altra parte, non ha senso per noi etichettare questi esempi come veramente democratici mentre mettiamo in discussione le credenziali democratiche dei Greci che coniarono il termine. Ancora una volta si tratta di etnocentrismo: affermare il valore di esempi non Occidentali concedendo loro lo status onorario nel nostro paradigma Occidentale nettamente inferiore. Invece, se ammettessimo che la democrazia - intesa come pratica specifica risalente ai tempi di Sparta e Atene ed emulata in tutto il mondo - non sia stata all’altezza degli standard posti da molte di queste altre società, non avrebbe senso descriverli come democratici. Sarebbe più responsabile, e più preciso, descriverli e rispettarli alle loro condizioni.
Ciò fa sì che solo Atene possa essere intesa come la democrazia originale, dopo tutto. E se Atene fosse diventata così influente non a causa della sua libertà ma per il modo in cui sfruttò la politica partecipativa per il potere dello Stato? Fino ad allora, la maggior parte delle società era stata apolide; alcune erano gerarchiche, altre orizzontali, ma nessuna società apolide aveva il potere centralizzato di kratos. Gli Stati esistenti, al contrario, erano a malapena egualitari. Gli Ateniesi innovarono un formato ibrido in cui l’orizzontalità coincideva con l’esclusione e la coercizione. Questo sembra accattivante se si dà per scontato che lo Stato sia desiderabile o almeno inevitabile. Ma se lo Stato è la radice del problema, allora la schiavitù e il patriarcato dell’antica Atene non erano anomalie precoci del modello democratico, ma i segnali degli squilibri di potere codificati nel suo DNA fin dall’inizio.
Democrazia rappresentativa—Un mercato per il potere
Il Governo degli Stati Uniti ha più punti in comune con la Repubblica dell’antica Roma che con Atene. Invece di governare direttamente, i cittadini Romani eleggevano dei rappresentanti affinché presiedessero una complessa burocrazia. Con l’espansione del territorio Romano, e la prosperità che ne seguì, i piccoli agricoltori persero i propri appoggi e un gran numero di espropriati si riversò nella capitale; i disordini costrinsero la Repubblica a estendere i diritti di voto a fasce sempre più ampie della popolazione, eppure l’inclusione politica fece ben poco per contrastare la stratificazione economica della società Romana. Tutto ciò suona stranamente familiare.
Dal momento in cui Giulio Cesare salì al potere, la Repubblica giunse al termine e Roma, da quel momento, fu governata da imperatori. Eppure molto poco cambiò per il Romano medio: la burocrazia, i militari, l’economia e i tribunali continuarono a funzionare come prima.
Facciamo ora un salto in avanti fino ad arrivare alla Rivoluzione americana del XVIII secolo. Inferociti per la “tassazione senza rappresentanza,” i sudditi nordamericani dell’Impero Britannico si ribellarono e istituirono una democrazia rappresentativa propria,3. presto completata con un Senato in stile Romano. Ancora una volta, la funzione dello Stato rimase invariata. Coloro che avevano combattuto per respingere il Re scoprirono che la tassazione con rappresentanza era leggermente diversa. Ne seguirono una serie di rivolte - la ribellione di Shays, la Rivolta del Whisky, La rivolta di Fries e altre ancora - tutte represse nel sangue. Grazie alla lealtà di tutti coloro che si erano ribellati contro il Re, il nuovo Governo democratico riuscì a placare la popolazione laddove l’Impero Britannico aveva fallito: d’altronde, questo Governo non li rappresentava?4
“Quelle persone che credono nella più netta distinzione tra democrazia e monarchia possono a malapena apprezzare come un’istituzione politica possa attraversare così tante trasformazioni e tuttavia rimanere la stessa. Eppure, un rapido sguardo deve mostrarci che lungo tutta l’evoluzione della monarchia inglese, con tutte le sue espansioni e le sue rivoluzioni, e anche con il suo attraversare il mare verso una colonia che divenne una nazione indipendente e poi un potente Stato, lo stesso Stato funzioni e che gli assetti siano stati mantenuti sostanzialmente invariati.”
— Randolph Bourne, Lo Stato
Questa storia si è ripetuta svariate volte. Durante la Rivoluzione francese del 1848, il prefetto di polizia del Governo provvisorio entrò nell’ufficio lasciato vacante da quello del Re e impugnò gli stessi documenti che il suo predecessore aveva appena preparato. Nel XX secolo i passaggi dalla dittatura alla democrazia in Grecia, Spagna e Cile - e più recentemente in Tunisia ed Egitto - i movimenti sociali che rovesciarono i dittatori dovettero continuare a combattere contro la medesima polizia sotto il regime democratico. Questo è kratos, da alcuni chiamato Stato profondo, che si trasmette da un regime all’altro.
Leggi, tribunali, carceri, agenzie d’intelligence, esattori delle tasse, eserciti, polizia - la maggior parte degli strumenti di potere coercitivo che consideriamo oppressivi in una monarchia o in una dittatura operano allo stesso modo in una democrazia. Tuttavia, quando ci viene permesso di votare chi li gestisce, dovremmo considerarli nostri, anche quando usati contro di noi. Questo è il grande risultato di due secoli e mezzo di rivoluzioni democratiche: anziché abolire i mezzi utilizzati dai re per governare, li hanno resi popolari.
Sin dalla Rivoluzione americana, i movimenti rivoluzionari subirono un arresto prematuro con il passaggio di potere dai sovrani alle Assemblee. Invece di apportare i cambiamenti di cui erano in cerca tramite l’azione diretta, i ribelli affidarono quel compito ai nuovi rappresentanti alla guida dello Stato, solo per vedere i loro sogni traditi.
“Un’Assemblea costituente è il mezzo usato dalle classi privilegiate, quando una dittatura non è possibile, né per prevenire una rivoluzione, o, quando una rivoluzione è già scoppiata, per fermarne il corso con la scusa di legalizzarla, e di ritogliere al popolo i vantaggi ottenuti durante il periodo insurrezionale.”
— Errico Malatesta, ‘Contro la Costituente come contro la dittatura’
Pur essendo davvero potente, lo Stato non può liberare i suoi sudditi. Non può, perché trae il suo stesso essere dalla loro sottomissione. Può assoggettare gli altri, può impadronirsi e concentrare le risorse, può imporre diritti e doveri, può sottrarre diritti e concessioni - i premi di consolazione per i governati - ma non può offrire autodeterminazione. Kratos può dominare, ma non può liberare.
Invece, la democrazia rappresentativa promette l’opportunità di governarsi a vicenda a rotazione: una sovranità ripartita e temporanea, diffusa e dinamica e, tuttavia, gerarchica come il mercato azionario. In pratica, poiché questa regola è delegata, ci sono ancora governanti che esercitano un potere enorme rispetto a tutti gli altri. Di solito, come nel caso dei Bush e dei Clinton, provengono da una classe dirigente de facto, classe dominante che tende a occupare i vertici di tutte le altre gerarchie della nostra società, sia formali sia informali. Anche se un politico è di umili origini, più possibilità avrà di esercitare l’autorità, più i suoi interessi divergeranno da quelli dei governati. Tuttavia il vero problema non sono le intenzioni dei politici; è l’apparato dello Stato stesso.
Competendo per il diritto di essere alla guida del potere coercitivo dello Stato, coloro che lo avversano non mettono mai in discussione il valore dello Stato stesso anche se, in pratica, si trovano soltanto dal lato sbagliato della sua forza. La democrazia rappresentativa offre una valvola di pressione: quando le persone sono insoddisfatte, si concentrano sulle elezioni a venire, dando per scontato lo Stato stesso. Infatti, non è questo l’unico strumento abbastanza potente per riuscire a porre fine al profitto aziendale o alla devastazione ambientale? Non importa che sia stato proprio lo Stato a stabilire le condizioni affinchè questi siano stati possibili fin dall’inizio.
“La libera elezione dei padroni non abolisce né i padroni né gli schiavi. La libera scelta tra un’ampia varietà di beni e di servizi non significa libertà se questi beni e servizi alimentano i controlli sociali su una vita di fatica e di paura - se, cioè, alimentano l’alienazione. E la riproduzione spontanea da parte dell’individuo di bisogni che gli sono stati imposti non costituisce una forma di autonomia: comprova soltanto l’efficacia dei controlli.”
— Herbert Marcuse, L’uomo a una dimensione
Questo per quel che riguarda democrazia e diseguaglianza politica. Che dire della diseguaglianza economica che ha accompagnato la democrazia sin dal principio? Si potrebbe pensare che un sistema basato sulla regola della maggioranza tenderebbe a ridurre le disparità tra ricchi e poveri, poiché questi costituiscono la maggioranza. Tuttavia, proprio come nell’antica Roma, l’attuale ascesa della democrazia va di pari passo con un divario incolmabile tra chi ha e chi non ha. Com’è possibile?
Proprio come, in Europa, il capitalismo seguì al feudalesimo, così la democrazia rappresentativa si dimostrò più sostenibile della monarchia perché offriva mobilità all’interno delle gerarchie dello Stato. Il dollaro e il voto sono entrambi meccanismi per distribuire il potere gerarchicamente in modo tale da ridurre la pressione sulle gerarchie stesse. Contrariamente alla stasi politica ed economica del fedaulesimo, il capitalismo e la democrazia ridistribuiscono costantemente il potere. Grazie a questa flessibilità dinamica, il potenziale ribelle ha migliori probabilità di migliorare il suo status nell’ordine prevalente che di rovesciarlo. Di conseguenza, anziché minacciare il sistema politico dall’interno, l’opposizione tende a rigenerarlo.
La democrazia rappresentativa è per la politica ciò che il capitalismo è per l’economia. I desideri del consumatore e dell’elettore sono rappresentati da valute che promettono l’empowerment individuale ma concentrano incessantemente il potere sul vertice della piramide sociale e finché il potere sarà lì concentrato, sarà abbastanza facile bloccare, acquistare o distruggere chiunque la minacci.
Questo spiega perché, quando i ricchi e i potenti videro i loro interessi sfidati attraverso le istituzioni democratiche, furono in grado di sospendere la Legge per affrontare il problema - a testimonianza di ciò, non dobbiamo dimenticare l’orribile destino toccato ai fratelli Gracchi nell’antica Roma e a Salvador Allende nel Cile contemporaneo. All’interno della struttura dello Stato, la democrazia è sempre stata sconfitta dalla proprietà.5
“Nella democrazia rappresentativa, come nella competizione capitalista, tutti presumibilmente hanno una possibilità, ma solo pochi ne escono vincitori. Se non hai vinto, vuol dire che non ci hai provato abbastanza! Questa è la stessa spiegazione usata per giustificare le ingiustizie di sessismo e razzismo: Guarda, fannullone, avresti potuto essere Bill Cosby o Hillary Clinton se avessi lavorato più duramente. Ma al vertice non c’è abbastanza spazio per tutti, non importa quanto duramente lavoriamo.
Quando la realtà viene generata attraverso i media e l’accesso a questi è determinato dalla ricchezza, le elezioni sono semplicemente campagne pubblicitarie. La libera concorrenza determina quali lobbisti ottengono le risorse per determinare su quali basi gli elettori prendono le loro decisioni. In queste circostanze, un partito politico è essenzialmente un’azienda che offre opportunità d’investimento nella legislazione. È sciocco aspettarsi che i rappresentanti politici si oppongano agli interessi della loro clientela quando dipendono direttamente da questa per il potere.”
— Work (Lavoro)
Democrazia diretta: Governo senza lo Stato?
Questo ci porta al presente. Africa e Asia stanno assistendo alla nascita di nuovi movimenti a favore della democrazia; nel frattempo, molte persone in Europa e nelle Americhe, disilluse dai fallimenti della democrazia rappresentativa, hanno riposto le loro speranze nella democrazia diretta, passando dal modello della Repubblica romana al suo predecessore ateniese. Se il problema è che il Governo non risponde ai nostri bisogni, la soluzione non dovrebbe essere quella di renderlo più partecipativo, in modo da riuscire a esercitare il potere direttamente piuttosto che delegarlo ai politici?
Ma cosa significa esattamente? Significa votare leggi anziché legislatori? O rovesciare il Governo prevalente e istituire un Governo di Assemblee federate al suo posto? O cos’altro?
“La vera democrazia esiste solo attraverso la partecipazione diretta delle persone e non attraverso l’attività dei loro rappresentanti. I parlamenti sono stati una barriera legale tra il popolo e l’esercizio dell’autorità, escludendo le masse da politiche significative e monopolizzando la sovranità al loro posto. Alla gente resta solo una facciata di democrazia, manifestata in lunghe file per esprimere il proprio voto elettorale.”
— Mu’ammar Gheddafi, Libro verde
Se, da un lato, la democrazia diretta è solo un modo più partecipativo e dispendioso in termini di tempo per pilotare lo Stato, questa potrebbe offrirci maggior voce in capitolo per quanto riguarda i dettagli del Governo, salvaguardando però la centralizzazione del potere a esso inerente. In questo caso dobbiamo però fermarci a riflettere sull’entità del fenomeno: riusciamo immaginare 219 milioni di elettori aventi diritto al voto svolgere direttamente le attività del Governo americano? La risposta convenzionale è che le assemblee locali invierebbero rappresentanti a quelle regionali, che a loro volta ne invierebbero a un’assemblea nazionale - ma in questo caso, si starebbe già parlando di democrazia rappresentativa. Nella migliore delle ipotesi, anzichè eleggere periodicamente i rappresentanti, potremmo immaginare una serie incessante di referendum decretati dall’alto.
Una delle versioni più solide di quella visione è la democrazia digitale, o democrazia elettronica, promossa da gruppi come il Partito Pirata che è già stato incorporato nel sistema politico esistente; in teoria, possiamo però immaginare una popolazione collegata attraverso la tecnologia digitale, che prende tutte le decisioni riguardanti la propria società attraverso il voto della maggioranza in tempo reale. In tal modo, il Governo maggioritario otterrebbe una legittimità praticamente inarrestabile; tuttavia il potere più grande sarebbe probabilmente concentrato nelle mani dei tecnocrati che hanno amministrato il sistema. Codificando gli algoritmi che hanno determinato le informazioni e le domande emerse, potrebbero modellare le strutture concettuali dei partecipanti mille volte più invasivamente di quanto facciano oggi le campagne elettorali.
“Il progetto digitale di ridurre il mondo alla rappresentazione converge con il programma della democrazia elettorale, in cui solo i rappresentanti che agiscono attraverso i canali prescritti possono esercitare il potere. Entrambi si contrappongono a tutto ciò che è incalcolabile e irriducibile, adattando l’umanità a un letto di Procuste. Saldati come democrazia elettronica, presenterebbero l’opportunità di votare su una vasta gamma di quisquillie, rendendo indiscutibile l’infrastruttura stessa: più un sistema è partecipativo, più è “legittimo.”
— Deserting the Digital Utopia (Disertare l’utopia digitale)
Ma anche se un tale sistema potesse essere fatto funzionare perfettamente, vorremmo davvero mantenere il potere maggioritario centralizzato? Il semplice fatto di essere partecipativo non rende un processo politico meno coercitivo. Finché la maggioranza può imporre le sue decisioni sulla minoranza, si parla di un sistema analogo a quello che governa oggi gli Stati Uniti - un sistema che richiederebbe anche prigioni, polizia ed esattori delle tasse, oppure altri modi per esercitare le stesse funzioni.
La vera libertà non è questione di quanto possa essere partecipativo il processo di risposta alle domande, ma della misura in cui noi stessi siamo in grado di formulare i quesiti - e se possiamo impedire agli altri di imporci le loro risposte. Le istituzioni che operano sotto una dittatura o sotto un Governo eletto non sono meno oppressive quando impiegate direttamente dalla maggioranza senza la mediazione dei rappresentanti. In ultima analisi, anche lo Stato più direttamente democratico riesce meglio a concentrare il potere che a ottimizzare la libertà.
D’altro canto, non tutti credono che la democrazia sia un mezzo di Governo statale. Alcuni sostenitori della democrazia hanno tentato di trasformare la discussione, sostenendo che quella vera si svolge solo al di fuori dello Stato e contro il suo monopolio sul potere. Per gli oppositori dello Stato, questa sembra essere una mossa strategica, poiché si appropria di tutta la legittimità investita nella democrazia attraverso tre secoli di movimenti popolari e propaganda di Stato autocelebrativa. Tuttavia, i problemi alla base di questo approccio sono tre.
Innazitutto, è astorico. La democrazia è nata come forma di Governo statale; quasi ogni tentativo a noi noto di democrazia è stato realizzato attraverso lo Stato o, perlomeno, da persone che aspiravano a governare. I legami positivi con la democrazia come insieme di aspirazioni astratte giunsero in seguito.
“La democrazia non è, per cominciare, una forma di Stato. È, in primo luogo, la realtà del potere del popolo che non può mai coincidere con la forma di uno Stato. Ci sarà sempre tensione tra la democrazia come esercizio di un potere condiviso di pensare e agire e lo Stato, il cui vero principio è appropriarsi di questo potere… Il potere dei cittadini è, soprattutto, il potere per loro di agire per se stessi, costituirsi in una forza autonoma. La cittadinanza non è una prerogativa legata al fatto di essere registrato come abitante ed elettore in un Paese; è soprattutto un esercizio che non può essere delegato.”
In secondo luogo, favorisce la confusione. Chi promuove la democrazia come alternativa allo Stato raramente fa una distinzione significativa tra i due. Se si rinuncia alla rappresentanza, all’applicazione coercitiva e allo stato di diritto, mantenendo comunque tutti gli altri segni distintivi che rendono la democrazia un mezzo di Governo - cittadinanza, voto e centralizzazione della legittimità in un’unica struttura decisionale - si finisce per conservare le procedure del Governo senza i meccanismi che le rendono efficaci. Ciò raggruppa il peggio di entrambi i mondi perché si assicura che coloro che si avvicinano alla democrazia antistatale aspettandosi che svolga la stessa funzione dello Stato rimarranno irrimediabilmente delusi e creeranno una situazione in cui la democrazia antistatale tenderà a riprodurre, in scala minore, le dinamiche associate alla democrazia.
Infine, è una battaglia persa. Se ciò che si vuole indicare con la parola democrazia può verificarsi solo al di fuori della struttura dello Stato, ciò creerà un’ambiguità non indifferente nell’uso di un termine associato alla politica statale da 2.500 anni.6 La maggior parte delle persone supporrà che ciò che s’intende per democrazia sia, dopo tutto, conciliabile con lo Stato. Questo farà sì che i partiti e le strategie degli statisti riguadagnino legittimità agli occhi dell’opinione pubblica, anche dopo essere stati completamente screditati. I partiti politici Podemos e Syriza guadagnarono popolarità nelle piazze occupate di Barcellona e Atene grazie alla loro retorica sulla democrazia diretta, solo per farsi strada nelle sale del Governo dove ora stanno agendo come qualsiasi altro partito. Stanno ancora facendo democrazia, solo in modo più efficiente ed efficace. Senza un linguaggio in grado di differenziare le loro azioni in Parlamento da quelle che la gente portava avanti nelle piazze, questo processo si ripeterà ancora e ancora.
Nel momento in cui identifichiamo ciò che stiamo facendo quando ci opponiamo allo Stato come pratica della democrazia, gettiamo le basi affinché i nostri sforzi siano riassorbiti in strutture rappresentative più ampie. La democrazia non è solo un modo per gestire l’apparato del Governo, ma anche un modo per rigenerarlo e legittimarlo. Candidati, partiti, regimi e persino la forma di Governo possono essere sostituiti di volta in volta quando diventa chiaro che non possono risolvere i problemi degli elettori. In questo modo, lo stesso Governo - la fonte di almeno alcuni di questi problemi - è in grado di perdurare. La democrazia diretta è solo l’ultimo modo per rinominarla.
“Dobbiamo essere tutti governanti e governati contemporaneamente, oppure un sistema di sovrani e soggetti è l’unica alternativa… La libertà, in altre parole, può essere mantenuta solo attraverso una condivisione del potere politico, e questa condivisione avviene attraverso le istituzioni politiche.”
— Cindy Milstein, “Democracy Is Direct” (La democrazia è diretta)
Anche senza tutti gli orpelli caratteristici dello Stato, qualsiasi forma di Governo richiede qualche modo per determinare chi può partecipare al processo decisionale e a quali condizioni - ancora una volta, chi conta come demos. Inizialmente, tali clausole potrebbero essere vaghe, ma diventeranno più concrete quanto più cresceranno l’istituzione e la posta in gioco. E se non ci sarà modo di far applicare le decisioni - niente kratos - i processi decisionali del Governo non avranno più peso delle risoluzioni che le persone prendono autonomamente.7 Questo è il paradosso di un progetto che cerca il Governo senza lo Stato.
Queste contraddizioni sono abbastanza nette nella formulazione del municipalismo libertario di Murray Bookchin come alternativa al Governo statale. In questa forma di municipalismo, ha spiegato Bookchin, un’organizzazione esclusiva e dichiaratamente avanguardista governata da leggi e da una Costituzione prenderebbe le decisioni a maggioranza dei voti. Gestirebbe candidati alle elezioni del consiglio comunale, con l’obiettivo a lungo termine di istituire una confederazione in grado di sostituire lo Stato. Una volta avviata una simile confederazione, l’adesione dovrebbe essere vincolante, anche se i Comuni partecipanti volessero ritirarsi. Coloro che cercano di mantenere il Governo senza lo Stato finirebbero probabilmente con il ritrovarsi qualcosa di simile allo Stato ma con un nome differente.
Ciò che conta, non è quindi la distinzione tra democrazia e Stato, ma quella tra Governo e autodeterminazione. Il Governo è l’esercizio dell’autorità su un determinato spazio o politica: che il processo sia dittatoriale o partecipativo, il risultato finale sarà comunque l’imposizione del controllo. Al contrario, autodeterminazione significa disporre del proprio potenziale alle proprie condizioni: quando le persone si impegnano insieme, non si governano a vicenda ma favoriscono l’autonomia cumulativa. Gli accordi liberamente stipulati non richiedono applicazione; i sistemi che concentrano la legittimità in una singola istituzione o processo decisionale lo fanno sempre.
È strano applicare la parola democrazia all’idea che lo Stato sia intrinsecamente indesiderabile. La parola giusta per quell’idea è anarchismo. L’anarchismo si oppone a ogni esclusione e dominio a favore della decentralizzazione radicale delle strutture di potere, dei processi decisionali e delle nozioni di legittimità. Non si tratta di governare in modo completamente partecipativo, ma di rendere impossibile imporre qualsiasi forma di regola.
Il consenso e l’immaginario della regola unanime
Se i comuni denominatori del Governo democratico sono cittadinanza e polizia -demos e kratos -, la democrazia più radicale espanderebbe quelle categorie per includere il mondo intero: cittadinanza universale, polizia di comunità. Nella società democratica ideale, ogni persona sarebbe un cittadino8, e ogni cittadino sarebbe un poliziotto.9
All’estremità più distante di questa logica, la regola della maggioranza significherebbe la regola per consenso: non quella della maggioranza bensì unanime. Più ci avviciniamo all’unanimità, più viene percepito il Governo legittimo - quindi, il Governo per legittimo consenso non sarebbe quello più legittimo di tutti? Pertanto, infine, non sarebbe necessario che qualcuno ricoprisse il ruolo di polizia.
“Prendendo il termine nel rigore della sua accezione, non è mai esistita una vera democrazia e non ne esisterà mai una… Non si può immaginare che il popolo resti riunito senza posa per occuparsi dei pubblici affari.”
— Jean-Jacques Rousseau, Il contratto sociale
Ovviamente, questo è impossibile. Vale però la pena riflettere su quale tipo di utopia sia implicata nell’idealizzazione della democrazia diretta come forma di Governo. Immaginate il tipo di totalitarismo che ci vorrebbe per produrre abbastanza coesione per governare una società attraverso un processo di consenso - per far sì che tutti siano d’accordo. Si tratta di ridurre le cose al minimo comun denominatore! Se l’alternativa alla coercizione è l’abolizione del disaccordo, sicuramente ci deve essere una terza via.
Questo problema emerse con il movimento Occupy. Alcuni partecipanti intesero le assemblee generali come organi di Governo del movimento; dal loro punto di vista, non era democratico che le persone agissero senza un’autorizzazione unanime. Altri si avvicinarono alle assemblee come se fossero spazi d’incontro senza autorità prescrittiva, in cui le persone si sarebbero potute influenzare a vicenda e scambiare idee, formando costellazioni fluide attorno a obiettivi condivisi per agire. I primi si sentirono traditi quando i loro compagni Occupier s’impegnarono in tattiche non concordate nell’Assemblea generale; i secondi replicarono che non aveva senso concedere il potere di veto a una massa arbitrariamente convocata che includeva letteralmente chiunque fosse capitato per strada.
Forse la soluzione sta nel fatto che le strutture del processo decisionale debbano essere decentralizzate e basate sul consenso, in modo tale che l’accordo universale non sia necessario. Questo è un passo nella giusta direzione, ma introduce nuove domande. In che modo le persone dovrebbero essere divise in ordinamenti politici? Cosa determina la giurisdizione di un’assemblea o la portata delle decisioni che questa può prendere? Chi decide a quali assemblee può partecipare una persona o chi è maggiormente influenzato da una determinata decisione? Come vengono risolti i conflitti tra assemblee? Le risposte a questi quesiti istituzionalizzeranno un insieme di regole che regoleranno la legittimità o daranno priorità alle forme di associazione volontarie. Nel primo caso, le regole probabilmente si fossilizzeranno nel tempo, poiché le persone faranno riferimento al protocollo per risolvere le controversie. Nel secondo, le strutture del processo decisionale si sposteranno, si spezzeranno, si scontreranno e riemergeranno in procedimenti organici che potranno a malapena essere descritti come Governo. Quando i partecipanti a un processo decisionale sono liberi di ritirarsi da esso o di impegnarsi in attività che contraddicano le decisioni, allora ciò che ha luogo non è il Governo, è semplicemente una conversazione.10
Da un certo punto di vista, si tratta di enfasi. Qual è il nostro obiettivo? È quello di produrre le istituzioni ideali, rendendole il più orizzontali e partecipative possibili rimandandole però come fondamento ultimo dell’autorità? O consiste nello sfruttare al meglio la libertà, nel qual caso ogni istituzione particolare che creiamo è subordinata alla libertà e quindi superflua? E ancora: cos’è legittimo, le istituzioni o i nostri bisogni e desideri?
“Democrazia significa Governo fondato sulla discussione, ma funziona soltanto se si riesce a far smettere la gente di discutere.”
— Clement Attlee, Premier del Regno Unito, 1957
Anche al loro meglio, le istituzioni sono solo un mezzo per raggiungere un fine; non hanno alcun valore in sé e per sé. Nessuno dovrebbe essere obbligato ad aderire al protocollo di qualsiasi istituzione che ne reprima la libertà o non riesca a soddisfarne le esigenze. Il modo migliore per generare forme sociali nel vero interesse dei partecipanti sarebbe far sì che tutti fossero liberi di organizzarsi con gli altri su base puramente volontaria, poiché non appena una struttura non dovesse funzionare per tutti i soggetti coinvolti, questi dovrebbero perfezionarla o sostituirla. Quest’approccio non porterà tutta la società verso il consenso, ma è l’unico modo per garantire che quando questo si manifesterà potrà essere significativo e desiderabile.
Gli esclusi: razza, gender e democrazia
Sentiamo spesso discussioni sulla democrazia sulla base del fatto che, come tipo di Governo più inclusiva, sia la forma più adatta per combattere il razzismo e il sessismo insiti nella nostra società. Tuttavia, fintanto che le categorie di governanti/governati e inclusi/esclusi saranno integrate nella struttura della politica, codificate come “maggioranze” e “minoranze” anche quando queste ultime superano le prime, i disequilibri di potere sulla falsariga di genere e razza si rifletteranno sempre come diseguaglianze nel potere politico. Questo è il motivo per cui le donne, i neri e altri gruppi mancano ancora di un peso politico proporzionato rispetto alla loro presenza effettiva, nonostante possiedano apparentemente i diritti di voto da oltre un secolo.
“Non abbiamo beneficiato della democrazia americana. Abbiamo sofferto solo dell’ipocrisia americana.”
— Malcolm X, “Il voto o il proiettile”
In The Abolition of White Democracy, il compianto Joel Olson presenta una convincente critica di quella che lui chiama “democrazia bianca” - la concentrazione del potere politico democratico nelle mani dei bianchi attraverso un’alleanza di classe esistente tra coloro a cui sono garantiti i privilegi dei bianchi. Dà però per scontato che la democrazia sia il sistema più desiderabile, supponendo che la supremazia bianca sia un ostacolo accidentale al suo funzionamento anziché una conseguenza naturale dello stesso. Se la democrazia è la forma ideale di relazioni egualitarie, perché è stata coinvolta nel razzismo strutturale praticamente per tutta la sua esistenza?
Laddove la politica è costruita come una competizione a somma zero, coloro che detengono il potere saranno riluttanti a condividerla con gli altri. Consideriamo gli uomini che si opposero al suffragio universale e i bianchi che contrastarono l’estensione dei diritti di voto ai neri: le strutture della democrazia non ne scoraggiarono il fanatismo, ma diedero loro un incentivo affinché venisse istituzionalizzato.
Olson ripercorre il modo in cui la classe dominante favorì la supremazia bianca al fine di dividere la classe lavoratrice, ma trascura i modi in cui le strutture democratiche si prestarono a questo processo. Sostiene che dovremmo promuovere la solidarietà di classe come risposta a queste divisioni, ma (come Bakunin sosteneva contro Marx ) la differenza tra Governo e governato è essa stessa una differenza di classe: si pensi all’antica Atene. L’esclusione razziale è l’altra faccia della cittadinanza.
Quindi, la dimensione politica della supremazia bianca non solo è una conseguenza delle disparità razziali nel potere economico, ma le produce anche. Le divisioni etniche e razziali erano radicate nella nostra società molto prima dell’alba del capitalismo; la confisca delle proprietà ebraiche sotto l’Inquisizione finanziò l’iniziale colonizzazione delle Americhe; il saccheggio di queste terre e la riduzione in schiavitù degli africani fornirono le risorse iniziali per rilanciare il capitalismo in Europa e successivamente nel Nord America. È possibile che le divisioni razziali possano sopravvivere anche al prossimo cambiamento economico e politico significativo - per esempio, come assemblee esclusive di cittadini prevalentemente bianchi (o ebrei o persino curdi).
“Costruendo una società schiavista, l’America ha creato la base economica per il suo grande esperimento di democrazia… La classe lavoratrice indispensabile dell’America esisteva come proprietà al di là del mondo della politica, lasciando gli americani bianchi liberi di strombazzare il loro amore per la libertà e per i valori democratici.”
— Ta-Nehisi Coates, “Un conto ancora aperto”
Non esistono soluzioni semplici per questo problema. I riformatori spesso parlano di rendere il nostro sistema politico più “democratico,” intendendo dire con questo più inclusivo ed egualitario. Tuttavia, quando le loro riforme vengono realizzate in modo da legittimare e rafforzare le istituzioni del Governo, questo dà più peso a quelle istituzioni quando colpiscono chi è preso di mira e gli emarginati - a testimonianza di ciò non dobbiamo dimenticare l’incarcerazione di massa dei neri a partire dal movimento per i diritti civili. Malcolm X e altri sostenitori del separatismo nero avevano ragione a sostenere che una democrazia nata sulle esigenze dei bianchi non avrebbe mai offerto la libertà ai neri - non perché i bianchi e i neri non potranno mai coesistere, ma perché nel rendere la politica una competizione per il potere politico centralizzato, il Governo democratico crea conflitti che precludono la coesistenza. Se i conflitti razziali di oggi potranno mai essere risolti, sarà attraverso l’instaurazione di nuove relazioni basate sulla costituzione della decentralizzazione, non sull’integrazione degli esclusi nell’ordine politico degli inclusi.11
“Finché ci saranno poliziotti, chi pensi che tormenteranno? Finché ci saranno prigioni, chi pensi le riempirà? Finché ci sarà la povertà, chi pensi sarà povero? È ingenuo credere che potremmo raggiungere l’uguaglianza in una società basata sulla gerarchia. Puoi mescolare le carte, ma il mazzo è sempre lo stesso.”
Fino a quando riconosceremo che quello che stiamo facendo insieme politicamente è democrazia - come Governo attraverso un processo decisionale legittimo - vedremo quella legittimità invocata per giustificare programmi che sostengono funzionalmente la supremazia dei bianchi, che si tratti delle politiche di uno Stato o delle decisioni di un portavoce (ricordiamo, per esempio, le tensioni tra i processi decisionali delle assemblee generali prevalentemente bianche e gli accampamenti meno bianchi all’interno di molti gruppi Occupy). Solo quando abbandoneremo l’idea che qualsiasi processo politico sia intrinsecamente legittimo saremo in grado di eliminare l’alibi finale delle disparità razziali che hanno sempre caratterizzato il Governo democratico.
Prendendo in considerazione il genere, questo ci dà una nuova prospettiva sul perché Lucy Parsons, Emma Goldman e altre donne sostennero che la richiesta di suffragio femminile non coglieva il punto. Perché qualcuno dovrebbe rifiutare la possibilità di partecipare alla politica elettorale, per quanto imperfetta? Per farla breve, volevano abolire completamente il Governo, non renderlo più partecipativo. Ma facendo un’analisi più approfondita, possiamo trovare alcuni motivi più specifici per cui le persone interessate alla liberazione delle donne potrebbero nutrire dei sospetti sul diritto di voto.
Torniamo alla polis e agli oikos: città e famiglia. I sistemi democratici si basano su una distinzione formale tra sfere pubbliche e private; la sfera pubblica è il luogo di ogni legittimo processo decisionale, mentre la sfera privata è esclusa o scontata. Facendo un excursus lungo un vasta gamma di società ed epoche, questa divisione è stata profondamente di genere, con uomini che dominavano le sfere pubbliche - proprietà, lavoro retribuito, Governo, gestione e struttura sociale - mentre le donne e tutti coloro di genere non-binario erano relegati nella sfera privata: casa, cucina, famiglia, educazione dei figli, prostituzione, assistenza sanitaria e altre forme di lavoro invisibile e non retribuito.
“La storia delle attività politiche degli uomini dimostra che non hanno dato loro assolutamente nulla che non avrebbero potuto ottenere in un modo più diretto, meno costoso e più duraturo. In effetti, ogni loro piccolo avanzamento è stato realizzato grazie a una lotta risoluta, una battaglia incessante per l’autoaffermazione, e non per mezzo del voto. Non c’è ragione alcuna per presumere di ritenere che la donna, nella sua scalata verso l’emancipazione, sia stata o sarà mai aiutata dal voto.”
— Emma Goldman, “Il suffragio femminile”
Per quanto i sistemi democratici possano centralizzare il potere decisionale e l’autorità nella sfera pubblica, questi riproducono modelli patriarcali di potere. Ciò è più evidente quando le donne sono formalmente escluse dal voto e dalla politica - ma anche laddove non lo siano, si trovano spesso a dover affrontare ostacoli informali nella sfera pubblica mentre si trovano a dover sopportare responsabilità sproporzionate nella sfera privata.
L’inclusione di un maggior numero di partecipanti nella sfera pubblica serve a legittimare ulteriormente uno spazio in cui le donne e coloro che non si conformano alle norme di genere operano in una situazione di svantaggio. Se “democratizzazione” significa uno spostamento del potere decisionale da luoghi informali e privati verso un numero maggiore di spazi politici pubblici, il risultato potrebbe persino intaccare alcune forme di potere femminile. Ricordiamo come i primi rifugi d’accoglienza creati negli anni Settanta furono professionalizzati attraverso finanziamenti statali al punto tale che, negli anni Novanta, le donne che li avevano fondati non avrebbero mai potuto accedervi tramite posizioni che non richiedessero precedenti esperienze lavorative.
Pertanto, non possiamo fare affidamento sul grado di partecipazione formale delle donne alla sfera pubblica come indice di liberazione. Possiamo invece decostruire la distinzione di genere tra pubblico e privato, convalidando ciò che avviene in relazioni, famiglie, abitazioni, quartieri, reti sociali e altri spazi non riconosciuti come parte della sfera politica. Ciò non significherebbe formalizzare questi spazi o integrarli in una pratica politica presumibilmente neutra dal punto di vista del genere, ma piuttosto legittimare diversi modi di prendere decisioni, riconoscendo più siti di potere all’interno della società.
Due sono i modi per rispondere al dominio maschile della sfera politica. Il primo è cercare di rendere lo spazio pubblico formale il più accessibile e inclusivo possibile - per esempio registrando le donne al voto, fornendo assistenza all’infanzia, fissare delle quote per consentire la partecipazione ai processi decisionali, ponderare su chi è autorizzato a parlare durante le discussioni, o persino, come nel Rojava, istituendo assemblee per sole donne con potere di veto. Questa strategia cerca di attuare l’eguaglianza, ma presuppone ancora che tutto il potere debba essere investito nella sfera pubblica. L’alternativa è l’identificazione di luoghi e pratiche del processo decisionale che diano già potere alle persone che non beneficiano del privilegio maschile e garantiscano loro maggiore influenza. Questo approccio si basa su tradizioni femministe di lunga data che ritengono prioritarie le vite e le esperienze delle persone anziché le strutture e le ideologie formali, riconoscendo l’importanza della diversità e valorizzando aspetti della vita che, di solito, sono invisibili.
Questi due approcci possono coincidere e completarsi a vicenda, solo rinunciando all’idea che tutta la legittimità dovrebbe essere concentrata in un’unica struttura istituzionale.
Argomentazioni contro l’autonomia
Svariate obiezioni vengono mosse all’idea che le strutture decisionali dovrebbero essere volontarie anziché obbligatorie, decentralizzate piuttosto che monolitiche. Ci viene detto che senza un meccanismo centrale per decidere i conflitti, la società precipiterà verso la guerra civile; che è impossibile difendersi da aggressori centralizzati senza un’autorità centrale; che abbiamo bisogno dell’apparato del Governo centrale per affrontare oppressione e ingiustizia.
In realtà, la centralizzazione del potere potrebbe sia provocare sia risolvere i conflitti. Quando tutti devono fare leva sulle strutture statali per ottenere qualsiasi tipo di controllo sulle condizioni della propria vita, si genererà attrito. In Israele/Palestina, India/Pakistan - e in altri luoghi in cui persone di svariate religioni ed etnie erano coesistite autonomamente in relativa pace - l’imperativo colonialmente imposto per contendersi il potere politico nell’ambito della struttura di un singolo Stato ha prodotto una protratta violenza etnica. Tali conflitti furono comuni anche nella politica americana del XIX secolo: si consideri la prima guerra di gang a Washington e Baltimora che si sviluppò in prossimità delle elezioni, o la lotta per Bleeding Kansas. Il fatto che queste lotte non siano più comuni negli Stati Uniti, non significa che lo Stato abbia risolto tutti i conflitti da esso generati.
Il Governo centralizzato, propagandato come modo per porre termine alle controversie, consolida il potere in modo tale che i vincitori possano mantenere la propria posizione attraverso la forza delle armi. E quando le strutture centralizzate crollano - come accadde in Jugoslavia quando, negli anni Novanta, fu introdotta la democrazia - le conseguenze possono essere davvero sanguinose. Nella migliore delle ipotesi, la centralizzazione rimanda solo i conflitti, come un debito accumula interessi.
Possono le reti decentralizzate avere una possibilità contro le strutture di potere centralizzate? Se non ci riescono, allora l’intera discussione è puramente accademica, poiché qualsiasi tentativo di sperimentare la decentralizzazione sarà annientato da rivali più centralizzati.
La risposta è tutta da vedere, ma i poteri centralizzati di oggi non sono per nulla sicuri della propria invulnerabilità. Già nel 2001, la RAND Corporation sosteneva che i protagonisti del XXI secolo non sarebbero stati le gerarchie centralizzate bensì le reti decentralizzate. Negli ultimi due decenni, dal cosiddetto movimento No Global a Occupy e l’esperimento curdo dell’autonomia in Rojava, le iniziative che sono riuscite ad aprire lo spazio per nuovi esperimenti (sia democratici sia anarchici) sono state decentralizzate, mentre altri progetti centralizzati, come Syriza, sono stati cooptati quasi immediatamente. Una vasta gamma di studiosi sta ora teorizzando le caratteristiche distintive e i vantaggi dell’organizzazione basata su rete.
Vi è infine la questione legata a se una società abbia bisogno di un apparato politico centralizzato per poter porre fine all’oppressione e all’ingiustizia. Il primo discorso inaugurale di Abraham Lincoln, pronunciato nel 1861 alla vigilia della Guerra Civile, è una delle espressioni più forti di quest’argomentazione. Vale la pena citarla in dettaglio:
Chiaramente, l’idea centrale della secessione, è l’essenza dell’anarchia. Una maggioranza, tenuta a moderarsi a seguito delle restrizioni e dei limiti costituzionali, e che cambia sempre facilmente con le modifiche deliberate da opinioni popolari e dai sentimeni, è l’unico vero sovrano di un popolo libero. Chi la rifiuta, necessariamente, va verso l’anarchia o il dispotismo. L’unanimità è impossibile. Il Governo di una minoranza, come soluzione permanente, è del tutto inammissibile; così che, rifiutando il principio della maggioranza, l’anarchia o il dispotismo in qualche forma è tutto ciò che rimane…
Fisicamente parlando, noi non ci possiamo separare. Noi non possiamo rimuovere le nostre rispettive sezioni le une dalle altre, né costruire un muro invalicabile tra di loro. Un marito e una moglie possono divorziare, e vivere separatamente, e l’uno allontanarsi dalla vista dell’altro, ma le nostre parti del nostro Paese non possono farlo. Esse non possono che rimanere faccia a faccia, e i rapporti, sia amichevoli o ostili, devono continuare tra di loro. È possibile, dunque, che il rapporto sia più vantaggioso o soddisfacente dopo la separazione rispetto a prima? Possono degli estranei stringere dei patti più facilmente che degli amici fare delle leggi? Possono i trattati essere più fedelmente rispettati tra gli estranei di quanto le leggi lo possano tra amici? Supponiamo di andare in guerra, non si può lottare sempre; e quando, dopo molte perdite da entrambe le parti, e neppure nessun guadagno, cessano i combattimenti, le stesse vecchie questioni, in relazione al rapporto, sono di nuovo presenti.
Questo Paese, con le sue istituzioni, appartiene al popolo che lo abita. Ogni volta che il popolo è stanco del Governo attuale, può esercitare il suo diritto costituzionale di modifica dello stesso, o il suo diritto rivoluzionario di smembrarlo o rovesciarlo.
Proviamo a seguire questa logica nell’odierno mondo globalizzato e arriveremo all’idea di com’è il Governo mondiale: la maggioranza domina l’intero pianeta. Lincoln ha ragione, contro i partigiani del consenso, che una regola unanime è impossibile e che chi non desidera essere governato da delle maggioranze deve scegliere tra dispotismo e anarchia. Inizialmente, la sua tesi secondo cui degli estranei non possono stringere patti più facilmente che degli amici fare delle leggi potrebbe sembrare convincente. Ma gli amici non applicano reciprocamente le leggi: queste sono fatte per essere imposte alle parti più deboli, mentre i trattati sono stipulati tra eguali. Il Governo non è qualcosa che si svolge tra amici, non più di quanto un popolo libero abbia bisogno di un sovrano. Se dovessimo scegliere tra dispotismo, dominio della maggioranza e anarchia, quest’ultima sarebbe la cosa più vicina alla libertà, ciò che Lincoln chiama il nostro “diritto rivoluzionario” per rovesciare i Governi.
Tuttavia, associando l’anarchia alla secessione degli Stati del Sud, Lincoln stava montando una critica di autonomia che riecheggia ancora oggi. Va da sé che se non fosse stato per il Governo federale, la schiavitù non sarebbe mai stata abolita, né il Sud avrebbe desegregato o concesso diritti civili ai neri. Queste misure contro l’ingiustizia dovettero essere introdotte sotto la minaccia degli eserciti dell’Unione e, un secolo dopo, della Guardia Nazionale. In questo contesto, sostenere la decentralizzazione sembra voler dire accettare schiavitù, segregazione e Ku Klux Klan. Senza un legittimo organo centrale di Governo, quale meccanismo potrebbe impedire alle persone di esercitare un sistema oppressivo?
Ci sono molti errori qui. Il primo è ovvio: delle tre opzioni di Lincoln - dispotismo, dominio della maggioranza e anarchia - i secessionisti rappresentavano il dispotismo, non l’anarchia. Sarebbe anche ingenuo immaginare che l’apparato del Governo centrale sarà impiegato esclusivamente dalla parte della libertà. La stessa Guardia Nazionale che supervisionò l’integrazione nel Sud utilizzò proiettili veri per reprimere insurrezioni nere in tutto il Paese; oggi nelle carceri statunitensi il numero di neri lì detenuti è pari a quello degli schiavi prima della Secessione. Infine, non è necessario attribuire tutta la legittimità a un unico organo di Governo per agire contro l’oppressione. Si può ancora agire: bisogna semplicemente farlo senza utilizzare il pretesto di far rispettare la Legge.
Opporsi alla centralizzazione del potere e della legittimità non significa diventare abulici. Alcuni conflitti devono svolgersi; non possono essere aggirati. Nascono da differenze veramente inconciliabili, e l’imposizione di una falsa unità non fa altro che rimandarli. Nel suo discorso inaugurale, Lincoln stava invocando il nome dello Stato per sospendere il conflitto tra abolizionisti e sostenitori della schiavitù - conflitto inevitabile e necessario, che era già stato ritardato lungo decenni di compromessi intollerabili. Nel frattempo, abolizionisti come Nat Turner e John Brown furono in grado di agire con decisione senza bisogno di un’autorità politica centrale - in effetti, poterono agire così solo perché non ne riconoscevano uno. Se non fosse stato per la pressione generata da azioni autonome come la loro, il Governo Federale non sarebbe mai intervenuto nel Sud; se più persone avessero preso l’iniziativa come fecero loro, la schiavitù non sarebbe stata possibile e la Guerra Civile non sarebbe stata necessaria.
In altre parole, il problema non era la troppa anarchia, ma il fatto che ce ne fosse troppo poca. Fu l’azione autonoma a forzare la situazione legata alla schiavitù, non la deliberazione democratica. Inoltre, se ci fossero stati più sostenitori dell’anarchia, anziché una regola maggioritaria, non sarebbe stato possibile per i Sudisti bianchi riconquistare la supremazia politica nel Sud dopo la Ricostruzione.
Un altro aneddoto merita di essere menzionato. Un anno dopo il suo discorso inaugurale, Lincoln si rivolse a un comitato di uomini liberi neri sostenendo che sarebbero dovuti emigrare per fondare un’altra colonia simile alla Liberia nella speranza che il resto dell’America nera li avrebbe seguiti. Per quanto riguarda il rapporto tra i neri emancipati e i cittadini americani bianchi, sostenne che:
È meglio per entrambi essere separati… C’è una mancanza di volontà da parte della nostra gente, per quanto dura possa essere, affinché voi persone libere di colore rimaniate con noi.
Quindi, nella cosmologia politica di Lincoln, la polis dei cittadini bianchi non può separarsi, ma non appena gli schiavi neri degli oikos smettono di occupare il loro ruolo economico, è meglio che se ne vadano. Ciò permette di rielaborare le cose abbastanza chiaramente: la nazione è indivisibile, ma gli esclusi sono a perdere. Se gli schiavi liberati dopo la Guerra Civile fossero emigrati in Africa, sarebbero arrivati appena in tempo per vivere gli orrori della colonizzazione europea, con un bilancio di dieci milioni di morti nel solo Congo belga. La soluzione adatta a tali catastrofi non consiste nell’integrazione di tutto il mondo in una singola Repubblica dominata dalla maggioranza, ma nel combattere tutte le istituzioni che, per quanto democratiche possano essere, dividono le persone in maggioranze e minoranze - governanti e governati.
Ostacoli democratici per la liberazione
Salvo guerre o miracoli, la legittimità di ogni Governo costituito è sempre corrosiva; può solo essere tale. Qualunque cosa prometta lo Stato, nulla può compensare la necessità di cedere il controllo della nostra vita. Ogni specifica rimostranza sottolinea questo problema sistemico, anche se non sempre riusciamo a cogliere il quadro generale.
È qui che entra in gioco la democrazia: un’altra elezione, un altro Governo, un altro ciclo di ottimismo e delusione.
“La democrazia è un ottimo modo per garantire la legittimità del Governo, anche quando non fa un buon lavoro nel fornire ciò che il pubblico vuole. In una democrazia funzionante, le proteste di massa sfidano i sovrani. Non sfidano la natura fondamentale del sistema politico dello Stato.”
— Noah Feldman, “Tunisia’s Protests Are Different This Time” (Questa volta le proteste della Tunisia sono diverse)
Ma questo non sempre placa la popolazione. L’ultimo decennio ha visto nascere in tutto il mondo movimenti e rivolte - da Oaxaca a Tunisi, da Istanbul a Rio de Janeiro, da Kiev a Hong Kong - in cui disillusi e scontenti hanno cercato di prendere in mano la situazione. La maggior parte di questi tentativi si è stretta intorno allo standard di maggior e miglior democrazia, sebbene ciò non sia stato unanime.
Considerando la quantità di potere che i mercati e il Governo esercitano su di noi, è davvero allettante immaginare di poter in qualche modo ribaltare la situazione e governarli. Perfino coloro che non credono sia possibile che le persone governino il Governo di solito finiscono per governare l’unica cosa che rimane loro: la loro resistenza a esso. Avvicinandosi ai movimenti di protesta intesi come esperimenti di democrazia diretta, si prefissarono di prefigurare le strutture di un mondo più democratico.
E se la prefigurazione della democrazia fosse parte del problema? Ciò spiegherebbe perché un numero così esiguo di questi movimenti sia stato in grado di creare un’opposizione incompatibile alle strutture alle quali avevano deciso di opporsi. Con le eccezioni opinabili di Chiapas e Rojava, tutti sono stati sconfitti (Occupy), reintegrati nel funzionamento del Governo dominante (Syriza, Podemos) o, peggio ancora, hanno rovesciato e sostituito quel Governo senza ottenere alcun reale cambiamento nella società (Tunisia, Egitto, Libia, Ucraina).
Quando un movimento cerca di legittimarsi sulla base degli stessi princìpi della democrazia statale, finisce per provare a battere lo Stato al suo stesso gioco. Anche se avrà successo, la ricompensa per la vittoria sarà cooptata e istituzionalizzata, sia all’interno delle strutture di Governo esistenti sia reinventandole nuovamente. Così i movimenti che iniziano come rivolte contro lo Stato finiscono per ricrearlo.
“Occasionalmente ti ribelli, ma è sempre e solo per ricominciare a fare la stessa cosa da zero.”
— Albert Libertad, “Voters: You Are the Real Criminals” (Elettori: voi siete i veri criminali)
Questo può accadere in molti modi diversi. Ci sono movimenti che si ostacolano da soli sostenendo di essere più democratici, più trasparenti o più rappresentativi delle autorità; quelli che salgono al potere attraverso la politica elettorale, solo per tradire i loro obiettivi originali; altri che promuovono tattiche direttamente democratiche che risultano avere la stessa utilità anche per coloro che cercano il potere statale; e movimenti che rovesciano i Governi solo per sostituirli. Analizziamoli uno per uno.
Se limitiamo i nostri movimenti a ciò che la maggioranza dei partecipanti può concordare in anticipo, potremmo innanzitutto non essere in grado farli decollare. Quando gran parte della popolazione ha accettato la legittimità del Governo e delle sue leggi, la maggior parte delle persone non si sente in diritto di fare qualcosa che possa sfidare la struttura di potere esistente, non importa quanto male li tratti. Di conseguenza, un movimento che prende le decisioni tramite voto di maggioranza o consenso può avere difficoltà nell’acconsentire di utilizzare altre tattiche se non le più simboliche. Riuscite a immaginare gli abitanti di Ferguson, Missouri, tenere degli incontri per decidere se bruciare il negozio QuikTrip e combattere la polizia? Eppure, quelle azioni riuscirono a scatenare quel movimento che divenne noto con il nome di Black Lives Matter (Le vite nere contano). Le persone, di solito, devono sperimentare qualcosa di nuovo per aprirsi a esso: è un errore limitare un intero movimento a ciò che è già familiare alla maggioranza dei partecipanti.
Allo stesso modo, insistere sulla completa trasparenza dei nostri movimenti significa lasciare che le autorità dettino quali tattiche possiamo usare. In condizioni di diffusa infiltrazione e sorveglianza, effettuare tutti i processi decisionali in pubblico in completa trasparenza invita alla repressione di chiunque sia percepito come una minaccia allo status quo. Più un organo decisionale è pubblico e trasparente, più è probabile che le sue azioni siano conservatrici anche quando ciò contraddice la sua esplicita ragion d’essere - pensate a tutti i movimenti ambientalisti che non hanno mai fatto un solo passo per fermare tutte quelle attività che causano i cambiamenti climatici. All’interno della logica democratica, ha senso chiedere trasparenza al Governo, poiché dovrebbe rappresentare e rispondere al popolo. Ma al di fuori di quella logica, anziché richiedere che i partecipanti ai movimenti sociali rappresentino e rispondano l’un l’altro, dovremmo cercare di far sì che tutti coloro che prendono parte ai movimenti sociali sfruttino al meglio l’autonomia con cui potrebbero agire.
Se rivendichiamo la legittimità basandoci sul fatto di rappresentare la collettività, offriamo alle autorità un modo semplice per superarci in astuzia, aprendo la strada agli altri affinché cooptino i nostri sforzi. Prima che fosse introdotto il suffragio universale, era possibile sostenere che un movimento rappresentasse la volontà del popolo; ma, oggigiorno, un’elezione può attirare alle urne più persone rispetto a quanto anche il movimento più massiccio possa farne scendere in piazza. I vincitori delle elezioni potranno sempre affermare di rappresentare più individui di quanti facciano parte dei movimenti.12 Allo stesso modo, quei movimenti che pretendono di rappresentare i settori più oppressi della società possono essere superati dall’inclusione di rappresentanti simbolici di quei settori nelle stanze del potere. E fintanto che avvaloreremo l’idea di rappresentanza, alcuni nuovi politici o partiti potranno usare la nostra retorica per salire al potere. Non dovremmo pretendere di rappresentare le persone, dovremmo affermare che nessuno ha il diritto di governarci.
Cosa succede quando un movimento sale al potere attraverso la politica elettorale? La vittoria di Lula e del suo partito operaio in Brasile sembrava presentare la migliore delle ipotesi in cui un partito impostato su un’organizzazione radicale di base prendesse il comando. A quel tempo, il Brasile ospitava alcuni dei movimenti sociali più forti al mondo, tra cui la campagna di riforma agraria dell’MST (Movimento dei Lavoratori senza terra) in cui erano coinvolte più di un milione e mezzo di persone, molte delle quali collegate al Partito dei Lavoratori. Tuttavia, dopo che Lula entrò in carica nel 2002, i movimenti sociali entrarono in una fase di rapido declino che durò fino al 2013. I membri del Partito dei Lavoratori lasciarono l’organizzazione locale per assumere posizioni nel Governo, mentre le necessità di realpolitik impedirono a Lula di accordare concessioni ai movimenti da lui precedentemente sostenuti. L’MST aveva costretto il precedente Governo conservatore a legalizzare molte occupazione di terre, ma, sotto Lula, non fecero nessun progresso. Questo schema si ripresentò in tutta l’America Latina quando politici apparentemente radicali tradirono i movimenti sociali che li avevano fatti salire al potere. Oggi, i movimenti sociali brasiliani più forti sono le proteste di destra contro il Partito dei lavoratori. Non esistono scorciatoie elettorali per la libertà.
E se invece di cercare il potere statale, provassimo a promuovere modelli direttamente democratici come le assemblee di quartiere? Purtroppo, tali pratiche potrebbero essere sfruttate per essere messe al servizio di una vasta gamma di programmi. Dopo la rivoluzione slovena del 2012, mentre assemble di quartiere autoorganizzate continuavano a svolgersi a Lubiana, un’ONG finanziata dalle autorità cittadine iniziò a organizzarne in un quartiere “trascurato” come progetto pilota per “rivitalizzare” l’area, con l’intenzione esplicita di riportare i cittadini scontenti a intraprendere un dialogo con il Governo. Durante la rivoluzione ucraina del 2014, i partiti fascisti Svoboda e Settore Destro salirono alla ribalta attraverso le assemblee democratiche nel Maidan occupato. Nel 2009, i membri del partito fascista greco Alba Dorata si unirono ai locali nel quartiere ateniese di Agios Panteleimonas per organizzare un’assemblea che coordinò attacchi contro immigrati e anarchici. Se vogliamo favorire l’inclusività e l’autodeterminazione, non è sufficiente diffondere la retorica e le procedure della democrazia partecipativa.13 Dobbiamo diffondere una struttura che si opponga allo Stato e ad altre forme di potere gerarchico in sé e per sé.
Anche le strategie esplicitamente rivoluzionarie possono essere rivolte a vantaggio delle potenze mondiali in nome della democrazia. Dal Venezuela alla Macedonia, abbiamo visto attori statali e interessi personali far convergere un vero dissenso popolare nei movimenti sociali surrogati per poter abbreviare il ciclo elettorale. Di solito, l’obiettivo è quello di costringere il partito al potere a rassegnare le dimissioni al fine di sostituirlo con un Governo più “democratico,” ovvero più suscettibile agli obiettivi degli Stati Uniti o dell’UE. Tali movimenti, di solito, si concentrano sulla “corruzione,” implicando che il sistema funzionerebbe perfettamente se solo le persone giuste fossero al potere. Quando scendiamo in piazza, anziché rischiare di essere dei burattini nelle mani di qualche iniziativa politica straniera, dovremmo mobilitarci contro il Governo in sé, non contro un Governo particolare.
La rivoluzione egiziana illustra sensibilmente la strada senza uscita della rivoluzione democratica. Dopo che centinaia di persone diedero la propria vita per rovesciare il dittatore Hosni Mubarak e per istituire la democrazia, le elezioni popolari portarono al potere un altro autocrate, Mohamed Morsi. Un anno dopo, nel 2013, nulla era migliorato e le persone che avevano avviato la rivolta scesero di nuovo in piazza per respingere i risultati della democrazia, costringendo l’esercito egiziano a deporre Morsi. Oggi, l’esercito rimane il sovrano de facto dell’Egitto e prosegue con la stessa oppressione e ingiustizia che ispirarono due rivoluzioni. Le opzioni rappresentate dai militari, Morsi e il popolo in rivolta sono le stesse che Lincoln descrisse nel suo discorso inaugurale: tirannia, dominio della maggioranza e anarchia.
Qui, al limite della lotta contro povertà e oppressione, ci imbattiamo sempre nello Stato stesso. Finché accetteremo di essere governati, questo si sposterà avanti e indietro, a seconda della necessità, tra dominio della maggioranza e tirannia, due espressioni dello stesso principio di base. Lo Stato può assumere molte fogge; come la vegetazione, può seccare ma poi ricrescere dalle radici. Può assumere la forma di una monarchia o di una democrazia parlamentare, di una dittatura rivoluzionaria o di un consiglio provvisorio; quando le autorità sono fuggite e i militari si sono ammutinati, lo Stato potrà aleggiare come un germe trasportato dai sostenitori dell’ordine e del protocollo in un’assemblea generale apparentemente orizzontale. Tutte queste forme, per quanto democratiche, possono rigenerarsi in un regime capace di schiacciare libertà e autodeterminazione.
L’unico modo sicuro per evitare cooptazione, manipolazione e opportunismo è il rifiuto di legittimare qualsiasi forma di regola. Quando le persone risolvono i loro problemi e soddisfano i propri bisogni direttamente attraverso strutture flessibili, orizzontali e decentralizzate, non esistono leader da corrompere, nessuna struttura formale da far fossilizzare, nessun singolo processo da dirottare. Eliminare le concentrazioni di potere e coloro che desiderano impadronirsene potrebbero non avere alcun valore sulla società. Un popolo ingovernabile dovrà probabilmente difendersi dagli aspiranti tiranni, ma non dovrà mai mettere la propria forza dietro ai loro sforzi per governare.
Verso la libertà: punti di partenza
La difesa classica della democrazia è che è la peggior forma di Governo - a eccezione di tutte le altre. Ma se il problema è lo stesso Governo, dobbiamo ripartire da zero.
Reinventare l’umanità senza Governo è un progetto ambizioso; due secoli di teoria anarchica possono solo scalfire la superficie. Ai fini di quest’analisi, concluderemo con alcuni valori essenziali che potrebbero guidarci oltre la democrazia e alcune proposte generali su come capire cosa potremmo fare anziché governare. C’è ancora molto da fare.
“L’anarchismo non rappresenta la forma più radicale di democrazia, ma un paradigma completamente diverso dell’azione collettiva.”
— Uri Gordon, Anarchy Alive! (L’anarchia vive!)
Orizzontalità, decentralizzazione, autonomia, anarchia
Se messa sotto esame, la democrazia non è all’altezza dei valori che, per primi, ci spinsero verso di lei: egualitarismo, inclusività, autodeterminazione. A questi dobbiamo aggiungere orizzontalità, decentralizzazione e autonomia come loro indispensabili controparti.
L’orizzontalità è diventata di uso comune dalla fine del XX secolo. A partire dalla rivolta zapatista - e intensificandosi attraverso il movimento No Global e la ribellione in Argentina - l’idea di strutture senza leader si è diffusa anche nel mondo degli affari.
Se non vogliamo essere intrappolati in una tirannia di eguali, in cui tutti devono essere in grado di accordarsi su qualcosa affinché chiunque possa farlo, la decentralizzazione è importante quanto l’orizzontalità. Anziché un singolo processo attraverso il quale tutte le istituzioni devono passare, decentralizzazione significa un numero maggiore di siti di processo decisionale e di forme di legittimità. In questo modo, quando il potere è distribuito in modo disuniforme in un contesto, potrà essere controbilanciato altrove. Decentralizzazione significa preservare la differenza - la diversità strategica e ideologica è fonte di forza per movimenti e comunità, proprio come la biodiversità lo è nel mondo naturale. Non dovremmo isolarci in gruppi omogenei con il pretesto dell’affinità né ridurre la nostra politica ai minimi comun denominatori.
La decentralizzazione implica autonomia, ovvero la capacità di agire liberamente di propria iniziativa. L’autonomia può applicarsi a qualsiasi livello – a un singolo, un quartiere, un’intera regione. Per essere libero, devi avere il controllo dell’ambiente circostante e dei dettagli della tua vita quotidiana; più sei autosufficiente, più sicura è la tua autonomia. Questo non significa necessariamente soddisfare tutte le tue esigenze in modo indipendente; potrebbe anche voler dire che quel tipo d’interdipendenza ti dà un vantaggio sulle persone dalle quali dipendi. Nessuna singola istituzione dovrebbe essere in grado di monopolizzare l’accesso alle risorse o alle relazioni sociali. Una società che promuove l’autonomia richiede ciò che un ingegnere chiamerebbe ridondanza: una vasta gamma di opzioni e possibilità in ogni ambito della vita.
Se desideriamo favorire la libertà, non basta affermare l’autonomia da soli.14 Uno Stato-nazione o un partito politico possono farla valere; come possono farlo nazionalisti e razzisti. Il fatto che una persona o un gruppo siano autonomi ci dice poco di come sono le sue/loro relazioni con gli altri: egualitarie o gerarchiche, inclusive o esclusive. Se desideriamo sfruttare al meglio l’autonomia per tutti anziché semplicemente cercarla per noi stessi, dobbiamo creare un contesto sociale in cui nessuno sia in grado di accumulare potere istituzionale su chiunque altro.
Dobbiamo creare l’anarchia.
Demistificare le istituzioni
Le istituzioni esistono per servirci, non viceversa. Non hanno pretese innate sulla nostra obbedienza. Non dovremmo mai investire con maggior legittimità su altro che non siano i nostri bisogni e desideri. Quando i nostri desideri sono in conflitto con quelli degli altri, possiamo capire se un processo istituzionale può produrre una soluzione in grado di soddisfare tutti; ma non appena concediamo a un’istituzione il diritto di giudicare i nostri conflitti o di determinare le nostre decisioni, abbiamo rinunciato alla nostra libertà.
Questa critica non è rivolta a un particolare modello organizzativo, né è un dibattito su strutture “informali” rispetto a quelle “formali.” Piuttosto, richiede che tutti i modelli siano trattati come provvisori, che li rivalutiamo e li reinventiamo continuamente. Laddove Thomas Paine volle intronizzare la Legge come se fosse un re, laddove Rousseau teorizzò il contratto sociale e gli appassionati più recenti del capitalismo über alles sognano una società basata solo sui contratti, noi ribattiamo che non c’è bisogno di leggi o contratti solo quando le relazioni sono veramente nel migliore interesse di tutti i partecipanti.
Allo stesso modo, questa non è un’argomentazione a favore del mero individualismo, né del ritenere le relazioni sacrificabili, né di organizzarsi solo con coloro con cui condividere le proprie preferenze. In un mondo affollato e interdipendente, non possiamo permetterci di rifiutare di coesistere o di coordinarci con gli altri. Il punto è semplicemente che non dobbiamo cercare di legiferare sulle relazioni.
Invece di rimetterci a un progetto o a un protocollo, possiamo valutare le istituzioni in modo continuativo: premiano la cooperazione o la contesa? Distribuiscono agenzie o creano strozzature di potere? Offrono a ciascun partecipante l’opportunità di realizzare il proprio potenziale alle proprie condizioni o quella di imporre imperativi esterni? Facilitano la risoluzione del conflitto a condizioni reciprocamente accettabili o puniscono tutti coloro che si scontrano con un sistema codificato?
“Si è rivolto a noi dicendoci che non dovremmo mai farci tentare da alcuna riflessione per riconoscere che le leggi e le istituzioni esistono nel modo giusto se la nostra coscienza e ragione le condannassero. Ci ha ammonito di non preoccuparci se la maggioranza, per quanto grande, si è opposta ai nostri principi e opinioni; le maggioranze più ampie erano, a volte, solo criminalità organizzata.”
— August Bondi, scrivendo di John Brown
Creare spazi d’incontro
Al posto di luoghi formali di processo decisionale centralizzato, proponiamo una varietà di spazi d’incontro in cui le persone possano aprirsi all’influenza reciproca e trovare altri che condividano le medesime priorità. Incontro significa trasformazione reciproca: definizione di punti di riferimento e di preoccupazioni comuni. Lo spazio dell’incontro non è un organo rappresentativo investito dell’autorità di prendere decisioni per gli altri, né un organo di Governo che impiega il dominio o il consenso della maggioranza. È un’opportunità per le persone per sperimentare con delle azioni in diverse configurazioni su base volontaria.
Lo spokecouncil (ovvero il consiglio di portavoce) immediatamente precedente le manifestazioni contro il summit del Free Trade Area of the Americas (Zona di libero scambio delle Americhe), tenutosi in Quebec City nel 2001, fu un tipico spazio d’incontro. A questo aderirono parecchi gruppi autonomi confluiti da tutto il mondo per protestare contro il FTAA. Anziché tentare di prendere decisioni vincolanti, i partecipanti introdussero le iniziative che i rispettivi gruppi avevano preparato e coordinato per il reciproco vantaggio, ove possibile. Gran parte del processo decisionale prese forma successivamente in discussioni informali tra gruppi. In questo modo, migliaia di persone furono in grado di sincronizzare le loro azioni senza bisogno di una leadership centrale, senza fornire alla polizia troppe informazioni sulla vasta gamma dei programmi che erano stati preventivati. Se lo spokecouncil avesse adottato un modello organizzativo destinato a produrre unità e centralizzazione, i partecipanti avrebbero potuto trascorrere la notte a discutere infruttuosamente di scopi, strategia e di quali tattiche mettere in pratica.
La maggior parte dei movimenti sociali degli ultimi due decenni sono stati modelli ibridi che giustapponevano spazi d’incontro con una qualche forma di democrazia. Durante Occupy, per esempio, gli accampamenti fungevano da spazi aperti d’incontro, mentre le assemblee generali erano formalmente intese per essere organi decisionali direttamente democratici. La maggior parte di quei movimenti ottenne gli effetti desiderati perché gli incontri da loro promossi aprirono opportunità di azione autonoma, non perché avessero centralizzato l’attività di gruppo attraverso la democrazia diretta.15 Per riuscire a stabilire le priorità di ciò che facciamo meglio, dovremmo vedere l’incontro come forza trainante di questi movimenti, anziché come materia prima da modellare attraverso il processo democratico.
Gli anarchici frustrati dalle contraddizioni del discorso democratico hanno talvolta rinunciato a organizzarsi solo in base a un’affinità preesistente. Eppure la segregazione genera stagnazione e fragilità. È meglio organizzarsi sulla base delle nostre condizioni e necessità in modo tale da poter entrare in contatto con tutti coloro che le condividono. Solo quando inizieremo a vederci come snodi all’interno delle dinamiche collettive, anziché come entità distinte possedute da interessi statici, potremo dare un senso alle rapide metamorfosi che le persone subiscono nel corso di esperienze come il movimento Occupy - e l’enorme potere che l’incontro possiede, se ci apriamo a esso.
Coltivare la collettività, preservare la differenza
Se nessuna istituzione, contratto o legge dovrebbe essere in grado di determinare le nostre decisioni, come possiamo concordare quali responsabilità abbiamo l’uno verso l’altro?
Alcuni hanno suggerito una distinzione tra gruppi “chiusi,” in cui i partecipanti concordano di rispondere ognuno delle proprie azioni, e gruppi “aperti” che non hanno bisogno di raggiungere un consenso. Ed ecco sorgere una domanda: come possiamo tracciare una linea tra i due? Essere responsabili nei confronti dei nostri compagni in un gruppo chiuso solo fino a quando non scegliamo di lasciarlo, e dal quale possiamo andarcene in qualsiasi momento, è leggermente diverso dalla partecipazione a un gruppo aperto. Allo stesso tempo, siamo tutti coinvolti, piaccia o no, in un gruppo chiuso che condivide un unico spazio inevitabile: la Terra. Pertanto non si tratta di distinguere gli spazi in cui dobbiamo essere responsabili gli uni dagli altri da quelli in cui possiamo agire liberamente. La domanda è come promuovere la responsabilità e l’autonomia a ogni tipo di livello.
A tal fine, ci proponiamo di creare collettività reciprocamente soddisfacenti a ogni livello della società, spazi in cui le persone s’identifichino l’una con l’altra e abbiano un motivo per fare il meglio per gli altri. Queste possono assumere molte forme, dalle cooperative abitative e dalle assemblee di quartiere alle reti internazionali. Allo stesso tempo, riconosciamo che dovremo riconfigurarle continuamente in base al livello di confidenza e interdipendenza utili per i partecipanti. Quando una configurazione deve cambiare, ciò non deve necessariamente essere visto come fallimento: al contrario, mostra che i partecipanti non sono in competizione per l’egemonia. Invece di considerare il processo decisionale di gruppo come ricerca dell’unanimità, potremmo vederlo come uno spazio in cui sorgono differenze, conflitti da attuare e trasformazioni quando le diverse costellazioni sociali convergono e divergono. L’essere in disaccordo e il dissociarsi possono essere altrettanto desiderabili quanto il raggiungere un accordo, a condizione che si verifichino per le giuste ragioni; gli enormi vantaggi dell’organizzazione dovrebbero essere sufficienti a scoraggiare le persone dalla fratturazione gratuita.
Le nostre istituzioni dovrebbero aiutarci a risolvere le differenze, non a sopprimerle o sommergerle. Alcuni testimoni di ritorno dal Rojava riferiscono che quando un’assemblea non riesce a raggiungere il consenso, si divide in due corpi, frammentando le sue risorse tra questi. Se ciò fosse vero, questo offrirebbe un modello di associazione volontaria che rappresenterebbe un grande miglioramento sulla drastica unità della democrazia.
Risolvere i conflitti
A volte la divisione in gruppi separati non è sufficiente per risolvere i conflitti. Per rinunciare alla coercizione centralizzata, dobbiamo trovare nuovi modi per affrontare la lotta. I conflitti tra coloro che si oppongono allo Stato sono uno dei beni principali che ne preservano la supremazia.16 Se vogliamo creare spazi di libertà, non dobbiamo fratturarci al punto di non poter difendere quegli spazi, e non dobbiamo risolvere i conflitti in modo da creare nuovi squilibri di potere.
Una delle funzioni più basilari della democrazia è di offrire un modo per risolvere le controversie. Votazioni, tribunali e polizia servono tutti a decidere i conflitti senza necessariamente risolverli; lo stato di diritto impone effettivamente un modello vincente per affrontare le differenze. Centralizzando la forza, uno Stato forte è in grado di far sì che i partiti in lotta sospendano le ostilità anche a condizioni reciprocamente inaccettabili. Ciò gli consente di sopprimere le forme di conflitto che interferiscono con le sua capacità di controllo, come la guerra di classe, mentre ne favorisce altre che minano la resistenza orizzontale e autonoma, come le guerre tra gang. Non possiamo comprendere la violenza religiosa ed etnica del nostro tempo senza prendere in considerazione i modi in cui le strutture statali la provocano e la esacerbano.
Quando accordiamo alle istituzioni una legittimità intrinseca, ci stiamo dando una scusante per non risolvere i conflitti, appoggiandoci invece sull’intercessione dello Stato. Ci dà un alibi per risolvere le controversie con la forza ed escludere chi è strutturalmente svantaggiato. Invece di prendere l’iniziativa per risolvere le cose direttamente, finiamo con il competere per il potere.
Se non riconosciamo l’autorità dello Stato, non avremo tali scuse: dovremo trovare soluzioni reciprocamente soddisfacenti o altrimenti subire le conseguenze del conflitto in corso. Questo ci incoraggia a prendere sul serio le esigenze e le percezioni di tutti e a sviluppare abilità con cui disinnescare la tensione. Non è necessario che tutti siano d’accordo, ma dobbiamo trovare dei modi per differenziarci che non producano gerarchie, oppressione e antagonismo inutili. La prima cosa da fare è abolire gli incentivi offerti dallo Stato per non risolvere i conflitti.
Sfortunatamente, molti dei modelli di risoluzione dei conflitti un tempo utilizzate dalle comunità umane sono ora persi per noi, sostituiti con la forza dai sistemi giudiziari dell’antica Atene e di Roma. Possiamo ricorrere a modelli sperimentali di giustizia trasformativa per capire quali alternative dovremo sviluppare.
Rifiutare di essere governati
Provando a pensare come potrebbe apparire una società orizzontale e decentralizzata, possiamo immaginare reti sovrapposte di collettivi e assemblee in cui le persone si organizzano per soddisfare i propri bisogni quotidiani: cibo, alloggio, cure mediche, lavoro, svago, dibattiti, compagnia. Essendo queste interdipendenti, le controversie potrebbero essere risolte amichevolmente, ma nessuno potrebbe costringere qualcun altro a stringere accordi non salutari o soddisfacenti. In risposta alle minacce, si mobiliterebbero in formazioni più ampie create ad hoc, attingendo a connessioni con altre comunità presenti nel resto mondo.
In effetti, molte società apolidi si sono comportate in modo simile nel corso della storia umana. Oggi, modelli come questo continuano ad apparire nelle intersezioni tra tradizioni indigene, femministe e anarchiche.
Questo ci riporta al nostro punto di partenza, nell’odierna Atene, in Grecia. Nella città in cui la democrazia si sviluppò per prima, migliaia di persone si organizzano ora sotto vessilli anarchici in reti orizzontali e decentralizzate. Al posto dell’esclusività dell’antica cittadinanza ateniese, le loro strutture sono estese e aperte; accolgono i migranti in fuga dalla guerra in Siria, perché sanno che il loro esperimento sulla libertà deve crescere o perire. Al posto dell’apparato coercitivo del Governo, cercano di mantenere una distribuzione decentralizzata del potere rafforzata da un impegno collettivo per la solidarietà. Anziché unirsi per imporre il dominio della maggioranza, cooperano per prevenire la possibilità del dominio stesso.
“Il principio secondo cui la maggioranza ha il diritto di governare la minoranza, in pratica risolve tutto il Governo in una semplice contesa tra due corpi di uomini, quali di questi saranno padroni e quali schiavi; un conflitto che - per quanto sanguinoso - non potrà mai, per natura, essere definitivamente chiuso, fino a che l’uomo si rifiuti di essere schiavo.”
— Lysander Spooner, Nessun tradimento
Questo non è uno stile di vita obsoleto, ma la fine di un lungo errore.
Dalla democrazia alla libertà
Torniamo al momento clou delle rivolte. Migliaia di noi si riversano nelle strade, trovandosi in nuove formazioni che offrono un senso di autoiniziativa sconosciuto ed esaltante. All’improvviso tutto s’interseca: parole e azioni, idee e sensazioni, storie personali ed eventi mondiali. Certezza - finalmente, ci sentiamo a casa - e incertezza: finalmente un orizzonte aperto. Insieme, ci scopriamo capaci di cose che non avremmo mai immaginato.
La cosa meravigliosa di questi momenti è che trascendono qualsiasi sistema politico. I conflitti sono essenziali quanto il bagliore di un consenso inaspettato. Questo non è il modo in cui opera la democrazia, ma l’esperienza della libertà: prendere collettivamente i nostri destini nelle nostre mani. Nessun insieme di procedure potrebbe istituzionalizzare tutto ciò. È un premio che dobbiamo strappare dalle fauci dell’abitudine e della storia ancora e ancora.
La prossima volta che si aprirà un ventaglio di opportunità, anziché reinventare ancora una volta la “vera democrazia,” facciamo sì che il nostro obiettivo sia la libertà, la libertà stessa.
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“Io sono veramente libero solo quando tutti gli esseri umani che mi circondano, uomini e donne, sono anch’essi liberi. La libertà degli altri, lungi dall’essere un limite o la negazione della mia libertà, ne è invece la condizione necessaria e la conferma.” — Mikhail Bakunin ↩
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In questo contesto, sostenere che “l’impegno personale è politica” costituisce un rifiuto femminista della dicotomia esistente tra oikos e polis. Ma se questa discussione dovesse essere intesa come il fatto che anche il personale dovrebbe essere soggetto al processo decisionale democratico, ciò permetterebbe alla logica del Governo di estendersi in altri aspetti della vita. La vera alternativa è di affermare più siti di potere, sostenendo che la legittimità non dovrebbe essere limitata a un unico spazio, cosicché le decisioni prese in famiglia non siano subordinate a quelle prese nei luoghi della politica formale. ↩
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Questo è un paradosso fondamentale dei Governi democratici: fondati da un crimine, santificano la legge - legittimando un nuovo ordine dominante come adempimento e continuazione di una rivolta. ↩
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“L’obbedienza alla Legge è la vera libertà,” si legge su un memoriale in onore dei soldati che repressero la Ribellione di Shays. ↩
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Proprio come il capitalista “libertario” sospetta che le attività anche del Governo più democratico interferiscano con il puro funzionamento del libero mercato, il sostenitore della pura democrazia può essere sicuro che fino a quando ci saranno diseguaglianze economiche, i ricchi eserciteranno sempre un’influenza sproporzionata anche sul processo democratico più attentamente costruito. Eppure Governo ed Economia sono inseparabili. Il mercato fa affidamento sullo Stato per far valere i diritti di proprietà mentre, alla base, la democrazia è un mezzo per trasferire, amalgamare, e investire potere politico: è un mercato per l’istituzione stessa. ↩
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L’obiezione che le democrazie che governano il mondo oggi non siano vere democrazie è una variante della classica fallacia argomentativa “Nessun vero scozzese.” Se, dopo alcune indagini, si scoprisse che nessuna democrazia esistente è all’altezza di ciò che s’intende con il termine, potrebbe essere necessario cercare un’espressione differente per ciò che si sta cercando di descrivere. Questo è ciò che accadde con i comunisti che, dopo essere stati messi di fronte a tutti i regimi comunisti repressivi del XX secolo, sostenevano che nessuno di loro era un vero e proprio comunista. Quando un’idea è così difficile da mettere in pratica al punto che milioni di persone che dispongono di una fetta considerevole delle risorse dell’umanità e che fanno del loro meglio nel corso dei secoli non possono produrre un unico modello operativo, è il momento di ripartire da zero. Date agli anarchici un decimo delle opportunità avute da marxisti e democratici, e allora potremo dire se l’anarchia funziona! ↩
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Senza istituzioni formali, le organizzazioni democratiche impongono delle decisioni che delegittimano azioni avviate al di fuori delle proprie strutture, incoraggiando all’uso della forza contro di loro. Da qui il classico in cui gli ufficiali antisommossa attaccano i dimostranti per aver fatto qualcosa di non concordato in anticipo tramite un processo democratico centralizzato. ↩
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In teoria, le categorie definite attraverso l’esclusione, come la cittadinanza, s’indeboliscono nel momento in cui le ampliamo per includere il mondo intero. Ma se desideriamo abbatterle, perché non rifiutarle del tutto, anziché promettere di farlo mentre, in realtà, le legittimiamo ulteriormente? Quando usiamo la parola cittadinanza per descrivere qualcosa di desiderabile, ciò non può fare altro che rinforzare la legittimità di quell’istituzione per come è oggi. ↩
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In effetti, la parola inglese “police” (“polizia”) deriva da polis passando per l’antica parola greca per cittadino. ↩
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Secondo Kant una repubblica è “violenza con libertà e Legge,” laddove l’anarchia è “libertà e Legge senza violenza” - pertanto, la Legge diventa solo un semplice consiglio che non può essere imposto. ↩
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Fino a ora, almeno, possiamo essere d’accordo con quello che disse Booker T. Washington: “L’esperimento della Ricostruzione nella democrazia razziale è fallito perché è iniziato dalla parte sbagliata, sottolineando i mezzi politici e gli atti dei diritti civili anziché i mezzi economici e l’autodeterminazione.” ↩
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Alla fine del maggio 1968, l’annuncio di elezioni a sorpresa interruppe l’ondata di occupazioni e scioperi selvaggi esplosi in tutta la Francia; lo spettacolo della maggioranza dei francesi che votava il partito del Presidente de Gaulle fu abbastanza per dissipare ogni speranza di rivoluzione. Ciò indica come le elezioni fungano da cerimoniale che rappresenta i cittadini l’uno con l’altro come partecipanti consenzienti nell’ordine dominante. ↩
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Mentre le crisi economiche s’intensificano insieme alla diffusa disillusione nei confronti della politica di rappresentanza, vediamo che i Governi offrono una partecipazione più diretta al processo decisionale per placare il pubblico. Proprio come le dittature in Grecia, Spagna e Cile furono costrette a passare attraverso Governi democratici per neutralizzare i movimenti di protesta, lo Stato sta aprendo nuove opportunità per coloro che potrebbero altrimenti guidare l’opposizione contro di lui. Se siamo i diretti responsabili per il funzionamento del sistema politico, dovremo incolpare noi stessi quando questo fallirà - non la struttura in sé. Questo spiega i nuovi esperimenti con budget “partecipativi” da Pôrto Alegre a Poznań. In pratica, i partecipanti raramente hanno potere sui funzionari della città; al massimo, possono fungere da consulenti o approvare un misero 0.1% dei fondi pubblici. Il vero scopo del bilancio partecipativo è reindirizzare l’attenzione popolare dai fallimenti del Governo al progetto di renderlo più democratico. ↩
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“Autonomia” deriva dal Greco antico auto-, sè, e nomos, legge - darsi la propria legge. Ciò suggerisce un’idea della libertà personale in cui un aspetto del sé - ovvero il super-io - controlla costantemente gli altri e determina tutti i comportamenti. Kant definì l’autonomia come autolegislazione, in cui l’individuo si obbliga a rispettare le leggi universali della moralità oggettiva anziché agire secondo i propri desideri. Al contrario, un anarchico potrebbe ribattere che dobbiamo la nostra libertà all’interazione spontanea di una miriade di forze dentro di noi, non alla nostra capacità di imporre un singolo ordine su noi stessi. Quale che sia l’idea di libertà che decideremo di abbracciare, questa avrà ripercussioni su tutto, dal modo in cui immaginiamo la libertà su scala planetaria fino a quello in cui comprendiamo i movimenti delle particelle subatomiche. ↩
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Molte delle decisioni che diedero a Occupy Oakland un impatto maggiore rispetto a quello degli altri accampamenti del movimento, incluso il rifiuto di negoziare con il Governo della città e la reazione dei militanti al primo sgombero, furono il risultato di iniziative autonome, non di un processo di consenso. Nel frattempo, alcuni Occupier interpretarono il processo di consenso come una sorta di struttura giuridica decentralizzata in cui qualunque azione intrapresa da qualsiasi partecipante all’occupazione avrebbe dovuto richiedere il consenso di ogni altro partecipante. Come ricorda un Occupier: “Una delle prime volte in cui i poliziotti tentarono di entrare nel campo di Occupy Oakland, furono immediatamente accerchiati e ricoperti da urla da un gruppo di una ventina di persone. Altri non furono contenti per l’accaduto. Il più esplicito di questi pacifisti si mise di fronte a quelli che stavano affrontando la polizia, incrociò le braccia a X - ovvero il simbolo che nella LIS indica un forte disaccordo - e disse ‘Non potete farlo! Io vi blocco!’ Per lui, il consenso era uno strumento di controllo orizzontale, che aveva concesso a tutti il diritto di reprimere qualsiasi azione compiuta da altri e ritenuta spiacevole.” ↩
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A testimonianza di ciò, ricordiamo le autodefensas che riuscirono a difendersi dai cartelli che, in alcune parti del Messico, sono funzionalmente identici al Governo, per poi trovarsi in mezzo a una guerra tra bande l’uno contro l’altro. ↩